AGI - “Da avvocato a libraio, mi sento libero”. Quando parla Maurizio Piscetta, romano, sembra di sentire un giovane allergico ai compromessi, sempre pronto a sfidare la vita a duello. Eppure, ha compiuto 81 anni il 13 gennaio scorso ed è ancora colmo di entusiasmo. La sua memoria è una galleria di ritratti di personaggi eccellenti coi quali ha condiviso parecchio, per esempio Giuliano Vassalli (partigiano, giurista, ministro della Giustizia e “padre” del nuovo Codice di procedura penale dell’89) e l’editore Giulio Einaudi.
Poteva tentare altre carriere, come nasce l’idea della libreria?
“Quando ebbi un dissenso violento alla facoltà di Giurisprudenza all’università La Sapienza”.
Con chi?
“Con Giuliano Vassalli di cui ero suo assistente di diritto penale”.
Cioè?
“A quel tempo contestavo il sistema con cui si facevano gli esami. Per esser chiari, c’era ancora la baronia: il docente voleva esercitare il suo ruolo, anche se restrittivo, sui discenti”.
Perché contestava quel metodo?
“Eravamo nel ’68. Ero docente e insieme discente (ho dato pure qualche esame a Lettere), avevo la capacità di indossare l’eschimo e di stare dietro a una scrivania. Non si era recepito il cambiamento che gli studenti volevano. E Vassalli non accettava questo. Oggi, col senno di poi, capisco Giuliano. E poi io ero nel Psi”.
Che vuol dire, anche Vassalli era socialista.
“Sì, ma io aderivo alle idee massimaliste di Riccardo Lombardi”.
Quando è entrato nel Psi?
“All’età di 14 anni, nella Federazione giovani socialisti in provincia di Novara, dove viveva mia nonno materno, agricoltore. Per paura dei tedeschi, mia madre era scappata a Roma e mio padre in Francia. Per cui venivo da un’esperienza già precostituita, dall’antifascismo”.
Poi cos’è successo?
“Mia madre, i miei zii e mio nonno volevano che frequentassi il Collegio Nazareno nel centro storico di Roma, perché avevano saputo che ci andavano i nobili”.
Lei è nobile?
“No. Al Collegio ho seguito fino al liceo Classico”.
Chi erano i suoi compagni di classe?
“Figli di gente importante ed era frequentato anche da uno dei figli di Giulio Einaudi, Mario, con il quale siamo diventati amici per la pelle”.
Einaudi seppe che aveva deciso di fare il libraio?
“Come no. Frequentavo casa Einaudi, alla Balduina, per storicità editoriale, per capire come funzionavano i libri, e Mario mi spiegava. Poi ho avuto rapporto con Giulio Einaudi e con il suo direttore commerciale, Roberto Cerati. Giulio era un uomo estremamente comunicativo. Riusciva a trovare la forza nelle persone per portarle a fare quello che magari non volevano, da Calvino a Levi e a tanti altri ancora. Ho cominciato a 13-14 anni a incontrare questo signore. Quando mangiavamo insieme, Einaudi mi diceva che ero diventato un massimalista terribile”.
Quando ha scelto di dedicarsi ai libri?
“Alla fine degli anni 60 vinsi un concorso all’Ufficio studi della Banca d’Italia. Però rifiutai, non avevo una bella opinione delle banche e mia madre, che era una persona molto democratica, mi chiese: ‘Sei contento?’ Sì, sono libero di pensare e di fare quello che mi pare”.
Poi?
“Nel ’70 ebbi la prima libreria, al civico 343 di viale dei Colli Portuensi, strada che diede il nome all’attività. A quel tempo esistevano ventuno cartolibrerie nel raggio di un chilometro quadrato: si poteva fare un lavoro istruttivo correlato alla docenza; si ricordi, le librerie sono sentinelle di quartiere. Nel ’78, insieme con altri amici, fondo il Comitato di quartiere di Monteverde nuovo. Pochi anni dopo contesto alcune cose che non vanno nel Psi, come per esempio quando si è voluto costringere Fabrizio Cicchitto a dire che era un piduista: nel partito dicevano che ero un guerrigliero. E poi collaboro anche al giornale ‘Il Quartiere’ di Monteverde”.
E la libreria?
“Nel ’74 cambio, dal civico 343 mi sposto al 379, dove la libreria si trova ancora oggi”.
Niente amore?
“Ho conosciuto mia moglie, belga, a piazza di Spagna. Era bibliotecaria presso l’opera pastorale ‘Aiuto alla Chiesa che soffre’ voluta dal sacerdote olandese Werenfried van Straaten (costituita nel 1947 per aiutare i fedeli della Germania orientale, ndr). In seguito sono arrivati i figli, nel ‘71 e ’73: oggi uno è libraio e l’altro nel settore import-export”.
Perché ha chiamato la libreria “Asterisco”?
“Fa pensare a qualcosa che ti sei dimenticato oppure a una nota, una spiegazione a piè di pagina”.
Come mai ha cambiato indirizzo?
“Il mio socio di fatto era andato via, apparteneva a una delle famiglie, i Farina, che a Roma aveva più edicole. Volevo fare esperienza sul campo. Avevo capito come funzionava un editore, il distributore, quindi mi mancava l’ultimo pezzo: fare il rappresentante di libri scolastici, e ho capito la funzionalità delle adozioni scolastiche. Quando ho fatto il presidente dei librai, del Sil (Sindacato italiano librai e cartolibrai) della Confesercenti - dal 2006 fino al 2021 responsabile di Roma e Lazio e per sette anni a livello nazionale - ho potuto mettere a sistema le richieste dei librai”.
Quindi ha fatto l’avvocato?
“Quando sono uscito dall’università il partito mi affidava fascicoli di studio sul diritto penale. Allora si cominciava a parlare di diritto amministrativo e iniziavo a capire la grande importanza della lettera ‘d’, ovvero gli ampi spazi di manovra consentiti nella norma dalle parole delega e deroga. Non ho mai esercitato la professione di avvocato, era in conflitto con la figura del libraio, ma il fatto di dover studiare sempre alcune materie mi portava ad avere nozioni abbastanza interessanti. All’epoca la pochezza non c’era. Si trovava poca gente ma preparata, eravamo tutti figli della guerra. Pensi, la mia matricola all’università alla lettera ‘P’ aveva il numero 250. La mia attività era (ed è) paralegale, come la chiamo, ed è sempre stata parallela. Oggi ho costituito un gruppo di lavoro e ho a che fare con Comune, Regione e ministeri, verificando le anomalie nel rapporto tra istituti di credito e clienti”.
Ancora le banche?
(Sorride). “Ma ho a che fare anche con tutto ciò che riguarda le nuove norme europee. Attualmente mi sto occupando di discrasie mercatali, sia in sede fissa sia in sede ambulante. In un certo senso, continuo a fare il contestatore che ero all’inizio e lo faccio volentieri”.
Che libri consiglierebbe?
“Il primo è ‘La democrazia in America’, di Alexis de Tocqueville. Si parla di un concetto che oggi si tira per la giacchetta dove si vuole, ma la democrazia o la si vive e si cerca di ottemperarvi altrimenti lasciamo perdere, facciamo un diritto privato ad personam. E poi, se vogliamo addentrarci in questioni pratiche, ‘L’economia’, di Riccardo Smith”.
Se tornasse indietro rifarebbe tutto?
“Sì, rifarei tutto. In punto di morte mia madre novantunenne, che era avanti anni luce, mi ha chiesto: ‘Sei contento?’ Sì – ho risposto - ho fatto le scelte giuste”.
Gli amici le hanno mai dato un soprannome?
“Nell’ambito sportivo mi chiamavano Alice: ero smilzo e correvo come un pazzo. Giocavo a basket. Allora il professionismo non esisteva. C’erano le squadre Stella Azzurra, Ex Massimo, Fiamma Roma e Lazio, dove stavo io”.
Che le hanno dato i libri?
“Il mio lavoro è stato un’immissione di acculturamento che non era così pianificato com’è oggi, al ribasso. I libri mi hanno dato un potere enorme su tutti coloro che, pur avendo uno status magnanimo, hanno accettato i miei consigli. E mi dànno il piacere di conoscere il pre, il post lo vedremo”.