AGI - Calciatrice, allenatrice di club anche maschili, CT di tre Nazionali, quella italiana compresa, personaggio televisivo, avvocato e ora eurodeputata. La carriera e il palmarés di Carolina Morace sono roba che può vantare una manciata di persone al mondo con tante pagine ancora da scrivere. Il suo viavai prima per l’Italia da nord a sud e viceversa, poi in giro per il pianeta fino a Trinidad & Tobago, è iniziato con la prima maglia azzurra indossata poco più che ragazzina nel 1978.
Curiosa, affamata di conoscenza e rapporti umani, delle cose della vita in ogni loro declinazione, è diventata famosa per le sue imprese che l’hanno portata prima donna in assoluto nella Hall Of Fame del calcio italiano e tra le Leggende della Golden Foot: 12 scudetti, altrettanti titoli di capocannoniere di cui 11 consecutivi, due secondi posti ai Campionati Europei con l’Italia con la quale vanta 153 presenze e 105 gol, altri trofei a fare da contorno di lusso. Raccontarsi in poche parole non è facile, ma ci proviamo.
"Il calcio femminile è cambiato da quando ho smesso, oggi ci sono partite di Champions League con 70mila spettatori in tribuna, alle sfide della Nazionale Italiana però il pubblico si è dimezzato. Siamo indietro rispetto ad altri paesi europei come Spagna, Francia e Inghilterra dove le calciatrici sono professioniste, mancano programmazione, idee, investimenti. Si va avanti con un contributo statale triennale da 16 milioni di euro che, con le difficoltà sociali che sta attraversando il paese, mi imbarazza perfino chiedere venga rinnovato. Possibile che in questi anni non sia stato non dico realizzato, ma almeno pensato un progetto di auto sostentamento? Gli share televisivi hanno dimostrato come il calcio femminile sia appetibile anche al grande pubblico, ma incontro ancora dirigenti operativi che trent’anni fa erano contrari alla sua esistenza e al suo sviluppo. Il calcio italiano e non mi riferisco solo a quello femminile, ha bisogno di manager con due caratteristiche ineludibili: devono essere giovani e competenti. Basterebbe guardare come si fa all’estero, non copiare e incollare sia chiaro, ma studiare i sistemi con cui hanno superato i loro momenti di crisi e adattarli alle nostre necessità. I primi che dovrebbero spingere per il cambiamento sono giocatori e giocatrici, invece sembrano refrattari al rinnovamento e si accontentano di piccole concessioni".
Lo scorso anno il Presidente Federale spagnolo Rubiales è stato costretto alle dimissioni e squalificato tre anni dalla FIFA per avere baciato sulla bocca la giocatrice della Nazionale Jenny Hermoso durante la premiazione per la vittoria al Mondiale, da noi sarebbe successa la stessa cosa?
"Quel gesto inopportuno e patriarcale ha scatenato un ribellione totale del mondo del calcio spagnolo a cominciare da quello maschile, non dimentichiamo che Rubiales ha un passato da calciatore professionista. Ho visto e letto prese di posizione durissime da ogni parte del mondo, in Italia onestamente mi aspettavo di più almeno dalle calciatrici. A cominciare da Sara Gama che occupa posti di rilievo sia a livello sindacale che federale e al Coni. Un’occasione persa per stimolare il concetto di inclusività e rispetto che poi sono i temi dei quali mi occupo nell’Europarlamento di Strasburgo dove sto imparando a fare politica con umiltà e dedizione. Mia moglie Nicola mi ha sempre spinto a farlo notando come mi interessasse fermarmi a parlare con tanta gente di problemi o questioni che magari non mi coinvolgessero direttamente, ma l’idea della candidatura è nata dopo la Pandemia durante la quale mi hanno colpito i modi di parlare e spiegare le cose di Giuseppe Conte. Ho preso 35mila voti di preferenza dei quali sento la responsabilità, anche la politica è un gioco di squadra dove rispetto dei ruoli e delle regole sono fondamentali: all’interno è giusto discutere di valori e di principi, poi all’esterno si segue la maggioranza. Ci tengo a dire però che ho affrontato la sfida elettorale senza alcuna garanzia che sarei stata capolista e che se un domani non mi sentissi più in sintonia con le idee del Movimento 5 Stelle mi farei subito da parte".
Cosa ti porti dietro in questa nuova avventura della tua carriera di calciatrice e allenatrice?
"Lo sport mi ha insegnato che l’obiettivo non è vincere a ogni costo e a prescindere, ma dare tutto quello che si ha dentro. Le cose indispensabili sono l’umiltà, l’allenamento e la capacità di sentirsi sempre parte di un gruppo, di una squadra. Per questo anche a Strasburgo per me è cosa normale lavorare insieme, ognuno nel rispetto del proprio ruolo e di quello degli altri. Servono empatia e dignità e la forza di non giudicare mai chi è diverso da noi per l’aspetto o le abitudini, cosa che invece in Italia facciamo spesso. Io ad esempio ho scoperto di essere stata razzista inconsapevole: con mia moglie andavamo a vedere le partite di calcio e magari per farle notare una calciatrice che mi aveva colpito le dicevo “Brava quella ragazza di colore”. Nicola non mi ha mai risposto nel merito, non mi ha mai detto nulla, ma quando capitava che fosse lei a segnalarmi una calciatrice, faceva riferimento che so alla lunghezza dei capelli o al modello di scarpini, mai al colore della pelle. Così sono arrivata a capire quanto avessi sbagliato".
Torniamo al tema dell’inclusività e della parità di diritti, che idea ti sei fatta del caso della pugilessa Imane Khelif ai Giochi Olimpici di Parigi?
"Onestamente penso ci si sia capito poco. La realtà è che siccome i casi di atlete sulle quali ci siano dubbi di sconfinamento verso la mascolinità sono pochissimi, gli studi scientifici sono rari e non danno risposte adeguate. Io credo ad esempio che abbassare il livello di testosterone da una certa età in poi non risolva la questione dei cambiamenti permanenti che un fisico possa avere subìto in precedenza. Lo sport deve essere inclusivo ma anche equo, soprattutto nelle specialità individuali o a coppia dove la forza fisica è determinante".
Hai girato il mondo e conosciuto le realtà sportive di tanti paesi, solo in Italia praticare lo sport di base è diventato difficile e costoso.
"Un gap grave per i nostri ragazzi perché lo sport non è solo benessere psico-fisico, è coesione, inclusione e insegna a vivere rispettando le regole, gli altri e sé stessi. Io non ho mai pagato per giocare a calcio ma le cose sono cambiate, oggi una famiglia con due o tre figli non può permettersi di pagare le loro quote di iscrizione a un’associazione sportiva. È tutto in mano ai privati perché a differenza di molti paesi esteri, le nostre scuole pubbliche sono nei centri delle città e non è stato possibile dotarle di piscine, campi da calcio, pallacanestro e pallavolo, tennis. In molti istituti manca persino la palestra che dovrebbe essere la struttura minima indispensabile. Io ho proposto di detassare del 50% le utenze elettriche, di gas, acqua e riscaldamento alle strutture sportive dedicate ai ragazzi in età scolastica a patto che la gran parte del beneficio economico vada in modo concreto e tangibile alle famiglie in difficoltà. Anche dall’educazione al rispetto degli altri e delle regole soprattutto quando si è in competizione, si gioca il futuro del nostro paese".