AGI - Arnaldo Trebeschi è un signore gentile di quasi 89 anni con una memoria portentosa la cui vita è stata attraversata da quella mattina e per ogni giorno, in ogni angolo del cuore e della mente, dal fragore della bomba che esplose in piazza della Loggia. Quella mattina del 28 maggio 1974 era un giovane uomo che discuteva col fratello Alberto, di due anni più grande, sul senso della manifestazione che di lì a poco si sarebbe svolta. Tutti e due insegnanti di fisica, padri di bimbi piccoli e con uno sguardo appassionato nel fuoco sociale di quegli anni, vivevano nello stesso palazzo a pochi passi dal Castello di Brescia dove incontriamo Arnaldo.
Seduto su una poltrona, sul tavolino accanto pile di fogli fitti di appunti che in realtà ha scolpiti nella mente. “Quella mattina gli dissi che secondo me i sindacati avevano pubblicizzato troppo poco lo sciopero. Alberto convenne: ‘Guarda che è molto importante esserci oggi per tutto quello che è successo negli ultimi quindici giorni’”. Nel Paese si erano susseguiti diversi attentati: a una sede della Cisl, a una del Partito socialista, alla Coop, a una panetteria, a una macelleria. I sindacati e il Comitato unitario antifascista decisero di allertare la popolazione con uno sciopero e una manifestazione.
“Quella mattina Alberto e sua moglie Clementina Calzari andarono presto in piazza col gruppo della Cgil. Io avevo delle cose da sbrigare e andai più tardi, da solo. Ero in mezzo alla piazza quando alle dieci in punto il sindacalista Franco Castrezzati cominciò il suo discorso. ‘Voi lo sapete che la nostra Costituzione vieta la ricostituzione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista….’ Ricordo che pronunciò la parola ‘Milano’, forse stava per fare un collegamento tra gli ultimi fatti e la strage di piazza Fontana quando ci fu lo scoppio. Poco dopo Giorgio Leali della Cgil urò: ‘È una bomba! E’ una bomba! Lavoratori, venite sotto al palco, il servizio d’ordine faccia il cordone per lasciare posto ai soccorsi!’”.
Qui maturò qualcosa di strano, “un istinto”, lo definisce Arnaldo. “Invece di andare sotto al palco, corsi nella direzione opposta. Non so nemmeno io perché e l’ho trovato subito…Non so se lei ha visto quella fotografia…”. Prende un vecchio foglio di giornale sul tavolino. L’immagine diventata simbolo della strage lo ritrae in pantaloni chiari e maglioncino nero piegato sulle ginocchia con la mano che accarezza teneramente il volto del fratello. Il resto del corpo era coperto dalla tela della bandiera del sindacato sulla quale si intravvede la parola ‘Scuola’. Un uomo regge un ombrello mentre la pioggia scende sugli otto cadaveri e i centodue feriti sull’asfalto.
“Continuano a pubblicare questa immagine senza dire quasi mai che sono io. Ma sono sempre stato molto riservato perché, come dice Leopardi, ‘quando muore una persona cara non ci sono parole giuste, sono giuste solo le lacrime’”. Arnaldo Trebeschi affonda nel divano, gli occhi luccicano, su questa immagine resterà il silenzio, non arriveranno altre parole. Insieme ad Alberto muore la moglie Clementina Calzolari, anche lei insegnante e impegnata nel sindacato. Quel pomeriggio in questa grande casa arrivarono amici e colleghi per portare un abbraccio di conforto. “A un certo punto in mezzo a tutta questa gente una giornalista chiese: ‘E il bambino, cosa fate?’”.
Io e mia moglie ci guardammo e istintivamente rispondemmo ‘Lo teniamo noi’”. Giorgio, figlio di 18 mesi della coppia, entrò nella famiglia degli zii che avevano già tre bambini. “Non ha ricordi dei genitori che ha conosciuto attraverso i nostri racconti. Quando era piccolo rifiutava quello che era successo tanto che quando giocava assieme a uno dei nostri figli lo indicava agli amichetti e diceva ‘poverino, lui ha perso i genitori’. Piano piano si è tranquillizzato, ha avuto successo negli studi e sul lavoro, ha una bella famiglia. Ci vogliamo molto bene”.
Alberto e Arnaldo avrebbero avuto ancora molto da discutere, oltre quella mattina. I loro confronti erano frequenti e serrati. “Mio fratello era un tipo particolare perché era un uomo che non aveva la verità ma la cercava continuamente con un rigore e un’insistenza che hanno caratterizzato tutta la sua vita. Questo aspetto lo ha portato a cambiare le sue posizioni anche completamente. Ad esempio era molto attento alle condizioni di lavoro dei colleghi, era stato tra i fondatori della sezione scuola della Cigl all’Itis dove insegnava e quindi aderì al marxismo e al Pc. Poi però si stancò perché disse di essersi accorto che il partito veniva organizzato da impiegati burocrati che non andavano dove c’erano i lavoratori e allora non rinnovò più la tessera. Quando sceglieva lo faceva con intensità, il suo obbiettivo era migliorare la vita degli altri.
Si licenziò da una multinazionale perché gli mancava insegnare. Insieme avevamo fondato la più numerosa sezione del partito radicale in Italia a Brescia. Dopo la strage, io stavo ancora nei radicali ma ero scettico e allora pensai: è morto un comunista e io lo sostituirò, così presi la tessera del Pci. Alberto era intelligente e molto più colto di me, mi è mancato ogni giorno della mia vita”. In questi 50 anni quasi sempre c’è stato un procedimento aperto in qualche procura o tribunale su piazza della Loggia, anche adesso se ne celebrano due a Roberto Zorzi e Marco Toffaloni, accusati di avere messo l’ordigno nel cestino.
Tra gli elementi portati dall’accusa proprio la foto dei fratelli Trebeschi nella quale si distinguerebbe il diciassettenne Toffaloni che oggi vive in Svizzera col nome Franco Maria Muller. Arnaldo ha seguito quasi tutte le udienze. “I depistaggi sono cominciati subito col vicequestore, poi si scoprì che era servizi segreti, il quale ordinò poche ore dopo l’attentato il lavaggio della piazza, cancellando in questo modo elementi utili alle indagini. Il 28 maggio la polizia perquisì le case di alcuni sindacalisti di sinistra perché il tentativo fu subito quello di voler attribuire a quell’ambito politico la responsabilità. Mi ricordo che venne perquisito il sindacalista Bailetti. I poliziotti gli chiesero: dove sono le armi ? E lui rispose: i libri sono le armi”.
Nella sentenza miliare sulla strage, poi confermata dalla Cassazione, la giudice della corte d’appello di Milano Anna Conforti scriveva che “dagli atti processuali emerge la prova certa di comportamenti ascrivibili ai vertici territoriali dell’Arma dei carabinieri e ad alti funzionari dei servizi segreti che sono incompatibili con ogni principio di lealtà e fedeltà ai compiti istituzionali”. Si può dire che, nonostante tutto, lo Stato abbia vinto arrivando a una verità? “Bisogna dirlo con chiarezza. Sì, una parte dello Stato ha vinto, quella rappresentata da otto magistrati, uno per ciascuno dei caduti, dopo che tanti assolvevano senza nemmeno leggere le carte o erano complici di depistaggi. I nomi dei magistrati sono quelli di Guido Salvini, Francesco Piantoni, Roberto Di Martino, Enzo Platé, Alfredo Maria Lombardi, Anna Conforti, Domenico Carcano, Gianpolo Zorzi. È vero che sono ancora in corso dei processi ma la verità c'è. Ci sono i nomi di due dei responsabili: Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi, anch’essi della destra eversiva. La firma certa della strage è quella neofascista”.
Cinquanta anni dopo come in quei giorni prima di quella mattina sarà nelle aule scolastiche a spiegare ai ragazzi le ragioni per cui devono conoscere questa storia. “Perché è importante farsi una memoria ma farsela bene, solo coi fatti accertati dalle carte e dalle sentenze. Devono sapere che la democrazia è sempre a rischio, i meccanismi che allora portarono alla strage vanno studiati perché possono essere utilizzati ancora”. L’aula magna della scuola dove insegnava Alberto porta il suo nome. “La sua voglia di verità ha lasciato una traccia e quella traccia ancora e sempre va seguita”.