AGI – “Arrivano in cinquecento da Torino per vendicare Jhonny”. La voce corre tra strade, case e negozi spopolati per il lungo ponte festivo poche ore dopo che Jhonny Sulejmanovic è stato ucciso davanti all’Ortomercato a colpi di pistola mentre dormiva in un furgone accanto alla compagna Samantha che, dicono i familiari, aspetta da lui un bambino da quattro mesi. Col passare delle ore, i presunti giustizieri evocati dai parenti della coppia di diciottenni scendono a cinquanta finché l’idea della spedizione imminente evapora.
Resta la rabbia nel cielo ancora gelido di un’acerba primavera ad accomunare chi voleva bene a Jhonny e chi qui ci vive e, parlando coi giornalisti delle tv, si fa riprendere di schiena perché ha paura. Siamo di fronte ai cancelli del gigantesco edificio da dove passano tonnellate di frutta e verdura per la città ma anche, come raccontano indagini giudiziarie del passato, droga, mafia e affari criminali. “No, non fate immagini nemmeno alle scarpe per favore che mi riconoscono”.
Lei è la donna che, “svegliata dagli spari”, ha visto dal balcone di casa sua “un ragazzo a terra, pieno di sangue e delle persone che cercavano di rianimarlo gettandogli l’acqua addosso e urlando che bisognava chiamare la polizia. Proprio le forze dell’ordine che qui non si vedono mai, eppure succede di tutto. Pensi che ho perfino paura a far bere il cane dalla fontana perché dentro gli zingari ci buttano il detersivo”.
Ma, premette la signora, “io non sono razzista e non ce l’ho con loro. Diciamo però che viviamo nel degrado. Italiani, stranieri, baby gang rubano nelle cantine, scippano i vecchietti in pieno giorno, spaccano e bruciano macchine. Gli stranieri forse sono un po’ peggio solo perché non hanno niente da perdere. Alla sera esco col cane nel parchetto e ho paura. Ho sempre paura. Vivo qui da una trentina d’anni ed è sempre peggio. Dov’è il nostro sindaco?”.
Più di una persona spiega di non essersi allarmata quando la notte scorsa ha sentito gli spari “perché pensavamo che fossero i soliti fuochi d’artificio che annunciano l’arrivo della droga”.
Kevin, il fratello di Jhonny, crede di sapere chi sia stato, fa il nome e il cognome. E pensa di conoscere anche chi lo abbia armato. Irrompe nel locale di questo presunto mandante, un signore cinese. “Io ti ammazzo!”. Il commerciante sguscia furente dal bancone e i due vengono a contatto. L’accusato accusa a sua volta: “Vengono in Italia solo a rubare. Ora, se continua a insultarmi, tiro fuori la pistola e lo ammazzo davvero”. Ma Kevin è anche il fratello di un ragazzo morto: “”Avrei preferito ammazzassero me – stringe i pugni -. Lui non vedrà mai suo figlio. Ho cercato di togliergli i proiettili dalla carne”.
“Loro sono gli extraterrestri, bisogna stargli lontani – sostiene un uomo fuori da un bar alludendo ai nomadi -. Spacciano davanti a tutti, spaccano le macchine, fanno quello che vogliono”. Non lontano da qui c’è il campo rom di via Bonfadini e in primavera vengono da Torino alcune famiglie con le roulotte che stazionano davanti all’Ortomercato. Forse, proprio per un dissidio su dove metterle, il giovane sarebbe stato ucciso. In quella dei familiari di Jhonny sono stipati in una decina in condizioni igieniche difficili. Entrano ed escono piangendo. La madre convince una giornalista a chiamare il presunto assassino. Lui risponde: “No, non sono stato io. Le pare che altrimenti starei qui al telefono con lei?”.
Il padre ascolta la telefonata scuotendo la testa. “Mio figlio è stato ucciso come da un cow boy. E’ possibile morire così a 20 anni?”.