AGI - Un tribunale che metta al centro l’essere umano, con giudici che dialoghino con la società e non soltanto chini sul codice, attenti alle parole, soprattutto quando si scrive di violenza di genere, aperti al confronto con la stampa la cui libertà deve essere “totale con strumenti di autocontrollo che il giornalista deve attuare, senza imposizioni normative”.
Progetti, idee e sogni raccontati all’AGI da Fabio Roia, 63 anni, da un giorno presidente del Tribunale di Milano dopo la nomina del Consiglio Superiore della magistratura. Legge e rilegge sulla parete dell’anticamera del suo ufficio i nomi di chi l’ha preceduto. “Tra tutti cito Piero Pajardi, illustre giurista, e, scorrendo l’elenco, mi viene da pensare: che ci faccio io qui? Però in questo anno e nove mesi di reggenza, seguito alla pensione del mio predecessore e prima della nomina, ho percepito un grandissimo affetto dei colleghi che avevano piacere o ritenevano fossi la persona più adatta a questo ruolo. Sono in uno stato di ansia e gioia con una piccola vena d’ombratura. Per poter ottenere questo risultato, mia moglie, che è presidente di una sezione civile del tribunale, si è dovuta spostare per incompatibilità. Mi sono chiesto ancora una volta se, nell’ambito delle carriere, debba essere sempre la donna a dover fare un passo indietro. Questo ha un po’ offuscato questa grande gioia che è anche una grande responsabilità perché parliamo di un tribunale con 1600 unità, tra giudici e personale amministrativo”.
Da molti anni Roia è uno dei massimi esperti di violenza sulle donne. E uno dei primi passi della sua presidenza sarà in linea con l’impegno profuso in questi anni. “A breve farò un provvedimento di riassetto organizzativo e la mia idea è creare una struttura dedicata al contrasto dei reati di genere con giudici di diversi settori che interagiscono con magistrati esterni al tribunale, penso ai pubblici ministeri, ma anche con la rete di Milano che è molto ricca, come quella dei centri antiviolenza, sia sul piano dell’affinamento della prevenzione sia per evitare ogni forma di vittimizzazione secondaria”.
Un tema che gli sta a cuore è quello del linguaggio dei magistrati quando si occupano di abusi di genere: “E’ fondamentale perché può essere anche involontariamente giudicante sia nel nel momento delle domande, sia nella scrittura dei provvedimenti. Sulla violenza di genere non abbiamo un problema di leggi perché ora abbiamo una legislazione d’avanguardia ma di come le applichiamo, quindi di formazione e competenza di procura, polizia giudiziaria e tribunale, e anche di risorse”.
La “persona” al centro è la cometa di Roia. “La giustizia è un sistema molto complesso perché si chiede produttività, c’è una visione un po’ aziendalistica e su questo dobbiamo lavorare perché sono arrivati dei fondi del Pnrr e dobbiamo rendere più competitivo il servizio. Da questo punto di vista Milano è fortunata perché ha un modello di efficienza che eredito dalle altre gestioni. Tutto questo però non deve stritolare la persona che è sempre al centro del conflitto. Noi interveniamo quando c’è una persona che lamenta la lesione di un diritto”.
L’idea di una giustizia ‘guidata’ dagli algoritmi non piace al presidente. “Fondamentale è lo spazio di riflessione e meditazione del giudice che non vuol dire soltanto pensare al caso ma comporta anche un approccio culturale al problema, con ascolto delle parti e un suo accrescimento culturale che garantisca una decisione non meccanica, non algoritmica ma connotata da un umanesimo profondo. Il giudice deve stare nella società per comprendere l’evoluzione dellla risposta della giustizia in relazione ai mutamenti della società”.
Un esempio? “Milano è al primo posto come numero di pendenze in materia di immigrazione tra richieste di asilo e protezione internazionale. Ci sono undicimila procedimenti pendenti e pochi magistrati, ci stiamo adoperando per metterne di più sul campo”.
Roia è stato per molti anni, dal 1989 al 2006, pubblico ministero e secondo la sua visione, contraria alla separazione delle carriere, questa può essere una carta in più ora che guida i giudici. “Sono in grado di comprendere le difficoltà dei pubblici ministeri e di collaborare con loro, pur nella rigorosa distinzione dei ruoli, per offrire risposte che siano efficaci in ambito penale. Abbiamo alcune fattispecie di reato con un dato patologico di assoluzione del 50 per cento. In questi casi dobbiamo capire quando è inutile esercitare l’azione penale sia per lo spreco di risorse sia a tutela dell’indagato che richia di mantenere questo status per molti anni per poi essere assolto”.
Sono giorni in cui si discute di possibili norme che restringano l’accesso dei giornalisti alle carte giudiziarie. “Noi abbiamo un tavolo di lavoro con le procura e gli ordini dei giornalisti e degli avvocati proprio perché vogliamo creare delle buone pratiche in materia di comunicazione con la stampa. Siamo convinti della necessità di informare e di informare bene. Io sono assolutamente favorevole a una massima informazione da parte della stampa, credo molto nell’autocontrollo e nella deontologia del professionista nel senso che è evidente che, se ci sono informazioni non utili per spiegare o per dare la notizia in modo corretto, dovrebbe essere il singolo giornalista a evitarne la pubblicazione”.
Nei cambiamenti della cronaca giudiziaria vede dei pericoli ma resta fermo su un punto di nessuna imposizione dall’esterno. “Mi rendo conto che questo autocontrollo non sempre c’è anche perché si è ampliata di molto la platea del giornalista. Oltre a quelle tradizionali ci sono molte altre testate, soprattutto online, meno abituate a trattare la cronaca giudiziaria. Credo che però, piuttosto che intervenire normativamente, bisognerebbe fare leva sulla professionalità del singolo operatore perché il giornalista svolge una funziona costituzionalmente rilevante ed essenziale. Quindi io sono favorevolissimo a una libertà di stampa totale però con strumenti di autocontrollo che il cronista stesso deve mettere in atto”.