I 650.000 caduti italiani della prima guerra mondiale sono onorati ogni 4 novembre – già anniversario della vittoria, oggi Festa dell’unità nazionale e delle Forze armate – ma dei circa 600.000 prigionieri di guerra nei lager tedeschi e austro-ungarici quasi mai nessuno si ricorda.
All’epoca quei soldati furono tacciati di non essersi battuti per l’Italia e vennero sprezzantemente abbandonati al loro destino: una pagina di storia ancora oggi imbarazzante. Non furono affatto traditori della patria e non furono i "vigliacchi di Caporetto", come sbrigativamente liquidati.
Lo scrissero a chiare lettere sui loro rapporti di fine ottobre 1917 gli stessi austro-tedeschi: «gli italiani hanno opposto (…) la più furibonda resistenza ai nostri attacchi»; «i fucili ed i cannoni del nostro nemico erano disperatamente attivi»; «più volte abbiamo dovuto annientare la tenace resistenza degli italiani con aspre lotte corpo a corpo».
Il generalissimo Luigi Cadorna scaricò invece sui soldati colpe che stavano altrove, e anche lui lo mise nero su bianco nel primo bollettino dopo Caporetto che venne ritirato e censurato, ma non abbastanza in tempo per evitare che fosse veicolato e reso pubblico. Il Governo italiano e il Comando supremo non vollero avere nulla a che fare con quella massa di prigionieri e di proposito si rifiutarono di attuare qualsiasi forma di aiuto pubblico, contrariamente a quanto avveniva in tutti i Paesi belligeranti.
Il risultato fu che la mortalità tra i soldati italiani era il triplo di quella tra i francesi, e uno su sei non tornò mai a casa. Centomila, in totale. Negli imperi centrali c’erano almeno un centinaio di lager dove i soldati di truppa erano alloggiati in baracche da 100-250 persone, con pagliericci infestati dai pidocchi, e inquadrati nelle compagnie di lavoro destinate a incarichi pesanti di 12 ore giornaliere nelle fabbriche o in campagna, con un regime alimentare di circa 900 calorie.
Diverso il trattamento degli ufficiali, circa 19.500 e mai mischiati a graduati e soldati semplici, esonerati dai lavori, con circa 1.400 calorie giornaliere e la possibilità di recarsi nei paesi vicini, con l’impegno sulla parola a non fuggire, per integrare le razioni e i pacchi viveri dall’Italia. E infatti tra di essi la mortalità sarà solo del 3% (550 deceduti). La Croce rossa faceva quel che poteva e così le famiglie, ma il Governo rimase sempre intransigente.
Anzi, calcava la mano sulla propaganda accusando l’Austria delle penose condizioni dei soldati in grigioverde e riversandole sui militari al fronte per allontanarli dalla tentazione di darsi prigionieri: la trincea sarebbe risultata preferibile al lager. E rifiutò sempre persino di trattare sullo scambio dei prigionieri falcidiati da freddo, fame e malattie.
Scrive l’ufficiale di artiglieria Carlo Salsa, rinchiuso a Theresienstadt (Terezin): «Al campo della truppa, prossimo al nostro, sono concentrati 15.000 soldati: ne muoiono circa 70 al giorno per fame. Spesso questi morti non vengono denunciati subito per poter fruire della loro razione di rancio, i compagni li tengono nascosti sotto i pagliericci fino a che il processo di decomposizione non rende insopportabile la loro presenza».
Le differenze di trattamento sono descritte da Angelo Bronzini: «I prigionieri di guerra americani erano mantenuti dal loro governo con una larghezza principesca; gli inglesi ricevevano pure dal loro governo o da comitati privati anche il superfluo ed erano vestiti e calzati a nuovo; i francesi avevano tutti, senza distinzione e fin dal primo giorno della cattura, pane biscottato in abbondanza e ricevevano gratuitamente indumenti e viveri a sufficienza da comitati vari. Noi italiani fummo invece abbandonati completamente».
Le condizioni dei campi austriaci, e in particolare a Milovice e Mauthausen, erano tremende. Da quell’inferno nel centro dell’Europa qualche lettera riusciva a superare le maglie di una censura rigidissima, ma la propaganda italiana incideva sulla società, tant’è che da alcune famiglie partirono lettere di sprezzo verso figli e mariti prigionieri: «Tu mi chiedi il mangiare, ma a un vigliacco come te non mando nulla: se non ti fucilano quelle canaglie d’austriaci ti fucileranno in Italia. Tu sei un farabutto, un traditore; ti dovresti ammazzare da te».
A Wrocław (Breslavia), in Polonia, c’è un cimitero di guerra con i resti di 1.016 soldati catturati dai tedeschi dopo Caporetto e deceduti nella Bassa Slesia. Le vittime di quella guerra sono ricordate e onorate non solo dalle autorità italiane, la console Monika Kwiatosz e i rappresentanti diplomatici a Varsavia, ma anche dai cittadini polacchi. A Milovice, in Repubblica Ceca, riposano 5.276 militari del Regio Esercito e la strada che conduce al cimitero, a tutti noto come “Il cimitero degli italiani”, si chiama Via Italská (Via Italia).
La maggior parte dei soldati morì per denutrizione, mascherata spesso sui documenti con bronchite, tubercolosi, enterite. Ogni anno si tiene una cerimonia ufficiale con la presenza dell’ambasciatore e delle associazioni militari per ricordare anche quei caduti. Quanto agli scampati, con l’armistizio di Villa Giusti del 3 novembre 1918 l’Austria-Ungheria sconfitta era stata obbligata a rimpatriare i prigionieri italiani, a partire dal 20 novembre, con la cadenza di 20.000 ogni giorno, mentre dalla Germania si comincerà solo a metà dicembre.
Era già previsto che gli ex prigionieri non dovessero avere contatti con la popolazione civile e dovessero essere radunati in appositi campi per essere interrogati. In alcuni casi vennero sottoposti a inchiesta penale per diserzione; quelli scagionati saranno mandati in licenza dai reparti, inviati in Macedonia e Albania e congedati solo dopo un anno. Il 2 settembre 1919, col Regio Decreto n. 1502, ci sarà l’amnistia di massa voluta dal capo del governo Francesco Saverio Nitti che porterà alla liberazione degli ultimi 40.000 soldati e alla cancellazione di ben 110.000 processi, metà dei quali in corso.
L’Italia nella guerra del 1915-1918 arruolò un sesto della popolazione maschile secondo il censimento del 1911: 6 milioni di soldati.