AGI - A oggi non ci sono certezze su quanto tempo proseguire la terapia ormonale con letrozolo, un inibitore dell'enzima aromatasi, dopo essere state operate per un tumore al seno positivo ai recettori per gli estrogeni. Nel prossimo futuro, grazie all'analisi genetica, potrebbe essere possibile personalizzare la durata del trattamento, minimizzando i rischi degli effetti collaterali e ottimizzando i benefici.
Tre varianti genetiche dell'enzima aromatasi sono infatti associate a un aumento della probabilità di recidive e metastasi a distanza di anni da un tumore al seno, ma sono anche connesse a una minore incidenza di eventi avversi come osteoporosi e malattie cardiovascolari. Analizzando il profilo delle tre varianti di un gene in ciascuna paziente sarà possibile bilanciare al meglio le cure.
Lo suggerisce una ricerca multicentrica italiana coordinata dall'IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova e finanziata dal Ministero della Salute, pubblicata oggi sulla prestigiosa rivista Clinical Cancer Research. Lo studio, iniziato nel 2005, ha coinvolto oltre 35 centri oncologici di tutta Italia avvalendosi delle competenze di oncologi e genetisti per analizzare se e come varianti genetiche dell'enzima aromatasi, implicato nella produzione degli estrogeni e bersaglio dell'antitumorale letrozolo, influiscano sulla probabilità di recidive del tumore e di effetti collaterali gravi.
"Gli inibitori dell'aromatasi come letrozolo rappresentano la terapia adiuvante anti-ormonale standard. Impediscono infatti agli androgeni di trasformarsi in estrogeni, il 'combustibile' per il tumore al seno positivo ai recettori per gli estrogeni che rappresenta il 70% dei 55.000 carcinomi mammari diagnosticati ogni anno nel nostro Paese", spiega la coordinatrice dello studio Lucia Del Mastro, oncologa e direttrice della Clinica di Oncologia medica dell'IRCCS Ospedale Policlinico San Martino - Università di Genova.
"In questi tumori gli ormoni, in particolare estrogeni e progesterone, stimolano infatti la crescita cellulare e nelle pazienti dopo l'intervento è perciò utile una terapia ormonale per bloccare lo sviluppo tumorale e ridurre il rischio di ricaduta. Il blocco degli estrogeni, tuttavia, si associa - aggiunge - a una maggiore probabilità di effetti collaterali come osteoporosi e malattie cardiovascolari". La ricerca ha perciò coinvolto 886 donne con tumore al seno positivo ai recettori per gli estrogeni che, dopo l'intervento chirurgico, hanno ricevuto letrozolo come terapia ormonale adiuvante, analizzando il profilo genetico delle pazienti per scoprire se influisse sugli esiti clinici negli anni successivi all'intervento.
"I risultati, frutto di 15 anni di lavoro, hanno permesso di individuare tre varianti geniche decisive sugli esiti della terapia", spiega Benedetta Conte, oncologa della breast unit dell'Ospedale Policlinico San Martino e attualmente ricercatrice del Translational Genomics and Targeted Therapies in Solid Tumors dell'IDIBAPS dell'Università di Barcellona e prima autrice dello studio.
"Le tre varianti si associano a un maggior rischio cumulativo di recidiva e metastasi del tumore a distanza di anni e con una maggiore mortalità, ma anche a un'incidenza cumulativa più bassa di effetti collaterali come fratture o eventi cardiovascolari a dieci anni. Questi risultati - continua - fanno ipotizzare che le pazienti con queste varianti genetiche producano fisiologicamente una maggiore quantità di estrogeni che da una parte riducono l'efficacia della terapia ormonale, portando a un rischio più alto di recidiva, dall'altra diminuiscono anche gli effetti collaterali gravi di tale terapia, come le fratture da osteoporosi".
I risultati potranno avere importanti ricadute cliniche, perché attraverso un'analisi di appena tre varianti di un gene, relativamente semplice grazie alle tecnologie attuali, sarà possibile personalizzare al meglio la terapia, come sottolinea Lucia Del Mastro: "Oggi le pazienti operate per un carcinoma della mammella positivo per i recettori ormonali ricevono il trattamento ormonale adiuvante per un periodo che arriva fino a 7-8 anni. Valutare la presenza o meno di queste tre varianti genetiche potrebbe aprire la strada alla personalizzazione della durata di tale trattamento sulla base del rischio di recidive e di effetti collaterali di ciascuna paziente, per minimizzare i pericoli e ottimizzare i benefici con una ricaduta positiva sugli esiti di sopravvivenza".