AGI - La "paralisi sine die" del processo per i delitti di tortura commessi da agenti pubblici - quale deriverebbe dall'impossibilità di notificare personalmente all'imputato gli atti di avvio del processo medesimo a causa della mancata cooperazione dello Stato di appartenenza - "non è accettabile, per diritto costituzionale interno, europeo e internazionale". Lo scrive la Corte costituzionale nella sentenza depositata oggi.
La Consulta così spiega perchè, il 27 settembre scorso, esaminando la questione sollevata dal gup di Roma nell'ambito del processo sull'omicidio di Giulio Regeni, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall'articolo 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell'imputato, è impossibile avere la prova che quest'ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell'imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.
Lo statuto universale del crimine di tortura, delineato dalle dichiarazioni sovranazionali e dai trattati, osserva la Corte nella sentenza (di cui è relatore il giudice Stefano Petitti), "è connaturato alla radicale incidenza di tale crimine sulla dignità della persona umana". Pertanto, aggiunge Palazzo della Consulta, il dovere dello Stato di accertare giudizialmente la commissione di questo delitto si presenta come "il volto processuale del dovere di salvaguardia della dignita'".
"No immunità ma giusto processo"
La Consulta dice anche no a "un'immunità 'de facto'", che "offende i diritti inviolabili della vittima", il "principio di ragionevolezza" e gli "standard di tutela dei diritti umani, recepiti e promossi dalla Convenzione di New York", violando i principi contenuti negli articoli 2, 3 e 117 della Costituzione.
"La necessità costituzionale di evitare la stasi del processo - spiega - può essere d'altronde soddisfatta senza alcuna riduzione delle facoltà partecipative dell'imputato, ma imprimendo ad esse una diversa scansione temporale, che si riassume nel diritto dell'imputato a ottenere in ogni fase e grado la riapertura del processo".
Dunque, rimettendo al giudice comune l'attuazione di questo diritto nella concretezza del singolo caso, la Corte ha sottolineato che "esso, proprio perchè conserva all'imputato ogni facoltà processuale, garantisce che la procedibilità in assenza per i delitti di tortura statale sia rispettosa del principio del giusto processo".