80 anni fa il bombardamento del quartiere San Lorenzo a Roma
AGI - A ottantant’anni di distanza dal bombardamento del quartiere San Lorenzo a Roma, il 19 luglio 1943, quel che resta ancora ben visibile è la carcassa d’una palazzina a tre piani, grigia e decaduta più che decadente, con qualche murale o graffito sovrimpresso, sulla via Tiburtina, che, nelle intenzioni, migliori, avrebbe dovuto diventare la Casa della Memoria e della Storia, a testimonianza del tragico evento e come monito, ma non è mai stata realizzata.
Una delle 4 mila bombe sganciate sulla città 80 anni fa, circa 1600 tonnellate di esplosivo, in quell’attacco degli alleati a bordo dei possenti e pesanti quadrimotori Boeing B-17 Flying Fortress e Consolidated B-24 Liberator, che sorvolarono la capitale per liberarla dalla presenza tedesca e nazifascista, le cadde vicino, svuotandola.
Un attacco pesantissimo e tragico
Solo a San Lorenzo ci furono 717 morti e 4 mila feriti, ma per la città il bilancio è stato ben più grave: 3 mila morti e 11 mila feriti tra i quartieri Tiburtino, Prenestino, Casilino, Labicano, Tuscolano e Nomentano bombardati anch’essi. “Diecimila case furono distrutte e 40 mila cittadini rimasero senza tetto”, il bilancio, come si racconta sul sito del Museo Storico della Liberazione di via Tasso.
Ma prima del giorno della liberazione vera e propria, il 4 giugno 1944 la Capitale è stata bombardata per altre 51 volte. Una sequenza che il cantautore Francesco De Gregori ha immortalato così nell’album “Titanic” del 1982: “Cadevano bombe come neve/il 19 luglio a San Lorenzo”, nella canzone dedicata al raid, dal titolo “San Lorenzo”.
Nelle intenzioni dei cacciabombardieri americani, l’obiettivo doveva essere lo scalo ferroviario di San Lorenzo, snodo della viabilità soprattutto militare, ma inevitabilmente i grappoli di bombe finirono per cadere un po’ ovunque. E nel quartiere anche la vicina semoleria Cecere viene quasi demolita. Per decenni gli scheletri degli edifici distrutti rimangono lì come simbolo dei tragici eventi del 19 luglio fino alla prima trasformazione urbanistica che cancella le ferite al tessuto urbano e sociale.
Nella stessa data del 19 luglio ‘43, “Mussolini va a Feltre per incontrare Hitler e proporgli l’uscita dalla guerra. Ma Hitler lo insulta minacciosamente”, si legge sul portale storico della Presidenza della Repubblica. E, appunto, in quello stesso momento gli alleati bombardano Roma alle 11 del mattino puntando la mira allo scalo ferroviario del popolare quartiere. Il Pontefice accorre immediatamente tra le rovine, benedice morti e feriti tra l’accoglienza dei romani che lo circondano, lo applaudono e gridano “pace!”, e impartisce anche a loro la sua benedizione. Arriva pure il re Vittorio Emanuele II “ma la popolazione lo copre d’insulti” e la sua vettura viene fatta oggetto di sassate costringendo il monarca a una rapida retromarcia.
La capitolazione del regime fascista e del Duce e il suo esautoramento da parte del Gran Consiglio del Fascismo è vicina e viene dichiarata di lì a sei giorni, il 25 luglio dello stesso anno. Tant’è che il 14 agosto il governo Badoglio dichiara Roma “città aperta” e il Comando Supremo italiano ordina immediatamente alle batterie antiaeree di stanza a Roma di non reagire in caso di passaggio degli aerei nemici americani e comanda poi anche lo spostamento di sede dei comandi italiani e tedeschi e delle rispettive truppe, impegnandosi a trasferire le infrastrutture militari e le fabbriche di armi e munizioni, e a non utilizzare il nodo ferroviario romano per scopi militari, di smistamento, di carico o scarico, e di deposito.
Ma le direttive italiane vengono largamente disattese dai tedeschi, che continuano a utilizzare la capitale italiana per scopi militari. Di conseguenza Roma viene bombardata dagli alleati per ben altre 51 volte fino ad arrivare al 4 giugno 1944, giorno della liberazione.
La testimonianza
Scrive in proposito lo storico Umberto Gentiloni Silveri, docente all’Università Sapienza di Roma, in “La guerra dall’aria. I bombardamenti alleati su Roma”, in un intervento al Senato nel giugno 2014, che “la complessa e articolata trama diplomatica e militare che portò gli Alleati a effettuare dall’estate del 1943 circa 51 incursioni aeree sulla Capitale rappresenta un punto di osservazione particolarmente adatto a chiarire diversi aspetti delle vicende che interessarono Roma e il nostro Paese negli anni della seconda guerra mondiale. Allo stesso tempo, gli avvenimenti in questione possono aiutare a inquadrare meglio la collocazione di Roma nell’ambito dell’evoluzione del più ampio teatro di guerra tra il maggio 1940 e il giugno 1944”.
Tuttavia, afferma ancora lo storico Umberto Gentiloni Silveri nel rievocare il bombardamento di San Lorenzo, l’ipotesi di bombardare Roma comincia a circolare “nei giorni immediatamente successivi all’ingresso dell’Italia nel conflitto mondiale”. In uno scenario, va ricordato, “dominato per la prima volta nella storia dal massiccio impiego dell’aviazione come strumento bellico rivolto sia contro gli eserciti nemici che verso gli obiettivi industriali, militari e civili dei Paesi belligeranti”, tant’è che “la questione di Roma irrompe anche nel dibattito tra alleati circa la conduzione della guerra”.
Così, alla luce del contesto e della cronologia globale della guerra, “la questione della ‘città aperta’ – osserva Gentiloni Silveri – ritrova una propria dimensione. Lo status speciale riveste una falsa centralità, che nasconde interessi e atteggiamenti spesso di comodo o strumentali. La dichiarazione unilaterale del governo italiano dell’agosto 1943 è considerata dagli inglesi come grottesca, irrealistica, non vincolante”.
Ovvero, “un’espressione impiegata da più parti e spesso piegata alle finalità del momento; un’illusione che genera fraintendimenti quando vengono colpiti i gruppi partigiani o quando la popolazione si sente erroneamente al sicuro”, cosicché “l’uso strumentale della ‘città aperta’, come alibi di copertura o come denuncia della sua avvenuta violazione, accompagna le fasi del conflitto. Il riferimento alla inviolabilità giuridica e materiale della città eterna diventa una lente privilegiata, un punto di osservazione attraverso il quale seguire l’evoluzione del confronto”.
Lo status di “città aperta” “mal si combina con la presenza di truppe e di postazioni militari disseminate sul territorio urbano; né può giustificare il dominio dell’Asse, prima nella sua variante italiana, il fascismo, dopo l’8 settembre nelle forme che assume l’occupazione nazista” perché “Roma non sarà mai ‘aperta’ negli anni del conflitto. Altre, piuttosto, le sue aggettivazioni, che si sovrappongono quasi cronologicamente: sacra, fascista, prigioniera, occupata, alleata e finalmente libera”, conclude lo storico.