AGI - “So con certezza che ci sono state delle persone che hanno iniziato a collaborare con la giustizia dopo la strage di Capaci. Pino Marchese è uno di questi: raccontano che si chiuse in bagno e pianse, dopo aver visto i funerali. Qualcosa, quel 23 maggio, e il 25, con i funerali, è stato seminato”.
Rosaria Costa si siede su un gradino della Stazione Termini: è il pomeriggio del 22 maggio, su Roma piove uno strano inverno. Trentuno anni fa, oggi, suo marito Vito Schifani saltava in aria sul ponte di Capaci, tra l’aeroporto di Punta Raisi e Palermo, insieme ai giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, e ai colleghi della scorta Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Due giorni dopo, immensa ventiduenne persa in un tailleur grigio più grande di lei, Rosaria, madre di un neonato che mai conoscerà suo padre se non in fotografia, ebbe la forza rivoluzionaria di parlare di perdono dall’altare della chiesa di San Domenico di Palermo, dove si celebravano i Funerali di Stato - “lo Stato, lo Stato”, ripeteva lei scorata, scuotendo i ricci - di quel ragazzo che aveva sposato, dei suoi colleghi, e dell’uomo che difendevano. “Io vi perdono - piangeva - però vi dovete mettere in ginocchio”.
Rosaria Costa, quel giorno, è diventata seme. Oggi, trentuno anni dopo, la sua testimonianza è raccontata in un libro, "La mafia non deve fermarvi", appena pubblicato da Rizzoli, e da un progetto Rai curato da Giorgia Furlan e Alessia Arcolaci per 42° Parallelo in collaborazione con la Presidenza del Consiglio dei Ministri, "I ragazzi delle scorte", una docu-serie che torna il 25 maggio in prima serata su Rai 3, dopo il primo episodio uscito a dicembre.
Cominciamo dalla fine: davvero si può perdonare l’imperdonabile? E soprattutto: lei diceva “si devono mettere in ginocchio”. In questi 31 anni, qualche ginocchio - almeno uno - si è piegato davanti a lei, a suo figlio Emanuele, alle vedove, agli orfani?
Nessuno lo ha fatto, nessuno è venuto a dire “signora ci dispiace”. Perdonare l’azione non si può, bisogna perdonare l’uomo: ma nessun uomo è venuto.
Chi avrebbe dovuto?
Non dobbiamo dimenticare che le stragi sono due. Io ricordo che Borsellino disse “questa Palermo diventerà bellissima e tutti insieme dobbiamo lottare per scacciare questi mascalzoni dalla nostra terra”. Ma quanti sono questi mascalzoni? Perché se sono annidati all’interno delle istituzioni noi non possiamo saperlo. Quindi chi ha tradito i nostri cari giudici e di conseguenza i ragazzi delle loro scorte, chi lo sa, potrebbe essere stato qualcuno vicino a loro, uomini che gli stringevano la mano. L’ho sempre pensato.
Lo ha detto anche sull’altare, quel giorno: “Mi rivolgo agli uomini della mafia, perché ci sono, qua dentro”.
Ma pensa un po’, a ventidue anni che ispirazione ho avuto: un qualcosa di travolgente quel giorno mi ha preso l’anima e lo spirito, altrimenti non avrei potuto dire quelle cose. Quella rabbia, era la rabbia di tutti: non era solo di Rosaria Costa, ma di tutta la Palermo onesta. Un messaggio, di rabbia e di speranza, che può essere stato anche un nuovo inizio per alcuni criminali, specie quelli che non hanno materialmente partecipato alle stragi come Marchese che in quel momento era in carcere, e ha iniziato a collaborare. Il discorso è ampio: io non credo che ci sia solo la mafia, dietro quelle stragi, ma che ci siano apparati dello Stato corrotti, dei Servizi Segreti, che hanno fatto un sodalizio con i mafiosi.
Traditori dello Stato? Nel suo libro scrive che già negli anni 80 a Palermo si avvertiva questo non detto.
Il gioco era troppo sporco. Non ce lo vedo un Riina, un Provenzano, che costruiscono un ordigno. Per costruire un telecomando, per piazzarlo, ci vuole un ingegnere: quelli erano altri boia, abituati a uccidere in un altro modo, incaprettando, sparando. Il gioco si è fatto troppo sporco e preciso: in 57 giorni hanno avuto la fretta di liberarsi anche di Paolo Borsellino, che indagava sulla morte del suo collega e amico, e per il quale non era stata prevista nemmeno un’area di rimozione forzata in via D’Amelio. Ma è normale? Quando hanno iniziato con il tritolo il messaggio è stato chiaro: chi sapeva doveva sparire, non doveva restare nemmeno traccia dei corpi. Una rabbia incredibile. Vigliacchi e rabbiosi.
Lei ha mantenuto un pudico riserbo sul suo dolore per molto tempo: cosa la spinge ora a rendere testimonianza?
Non mi piace partecipare alle passerelle: quest’anno il 23 maggio lo trascorro con Domenico Trozzi, generale in pensione che avvicinò Vito e tanti altri ragazzi allo sport e alla divisa. Io e mio figlio Emanuele ci siamo tenuti su questa linea: non vogliamo diventare un sacrario noi stessi, voglio dare la mia testimonianza e tornare a casa. Il rischio con i “pellegrinaggi” è che si cristallizzi una storia, anche nel modo sbagliato. Io la macchina della scorta non la posso vedere, e invece c’è gente che va lì a farsi la foto sorridendo. Non abbiamo da piangere solo tre giudici e otto poliziotti. E Ninni Cassarà? E Roberto Antiochia?
Di Falcone e Borsellino abbiamo fatto solo un “santino”?
Io vorrei che ai ragazzi delle scuole venisse concesso di andare in visita al Sacrario della Polizia: scoprirebbero che ci sono quasi 2.400 persone che hanno dato la vita per lo Stato, non solo le 11 che ricordiamo ogni anno, e tutti aspettano da loro un gesto d’affetto. E che tanti sono morti per lo Stato, ma non dobbiamo morire tutti, esiste un’alternativa. I ragazzi devono saperlo che sbagliare costa, e si paga. La testimonianza non deve fermarsi a raccontare sempre la stessa storia: deve cambiarla, deve essere generativa di qualcosa di nuovo. Serve nella misura in cui riusciamo a trarne un messaggio di speranza da condividere: è lo stesso nella malattia, nel tumore che ho avuto.
Matteo Messina Denaro ha detto che della mafia ha “letto sui giornali”. Che effetto fa questa tracotanza a chi invece dalla mafia è stato toccato nel sangue?
Quando l’ho letto non ho provato nulla: so solo che è un grande mentitore. Non posso dire con certezza che sia stato coinvolto nella strage di Capaci, o in altre, e lui può continuare a mentire. Abbiamo visto di tutto, anche i falsi pentiti. Però credo nella giustizia, e metto tutto nelle mani di Dio. Chi uccide per me può solo essere insignificante: non sono figli di Dio. Ma loro lo sanno che ci sarà una giustizia, e sarà vera.
Lei è stata “vedova di mafia” per la maggior parte della sua vita: racconta nel documentario che per Vito ha ormai un affetto quasi materno. Quali frutti spera di raccogliere da questa storia?
La pace. Mi chiamano ancora signora Schifani, e io non dico di no: mi sono risposata, e mio marito, un regalo del Padreterno, ha preso con sé tutto il pacchetto. Le nostre figlie conoscono Vito, ed Emanuele lavora nella Guardia di Finanza anche per l’insegnamento di suo padre. Dobbiamo gioire anche per lui, perché Vito ci vorrebbe felici: lui è tra le braccia di Dio, su questo non ho dubbi. Ci sono diversi modi di testimoniare: in questo Tina (Montinaro, vedova di Antonio, ndr) è stata bravissima: lei ha proprio lavorato con la polizia, io non potrei, rivivere il passato mi ha sempre fatto male. Ma dobbiamo metterci a nudo e raccontare: la ferita brucia perché quei ragazzi sono morti, ed è nostro dovere ricordare. Altrimenti saremmo uomini senza memoria: inutili.
Nel suo libro, quasi un diario, racconta di aver fatto da ragazza volontariato allo Zen, il quartiere più difficile di Palermo. Inizia tutto da lì?
Ci sono ragazzini piccoli attratti come una calamita dal male: compito degli adulti è far loro cambiare rotta, come faceva don Pino Puglisi. Ma è difficile in ambienti dimenticati da tutti: essere messi da parte genera rancore, e il rancore genera odio. Non serve fare la manifestazione in memoria a Palermo, e lasciare Palermo piena di immondizia, e lasciare i ragazzi delle scorte con i giubbotti antiproiettile vecchi e non sicuri. Ai ragazzi va insegnato a essere forti insieme, ché se parla uno solo rischia, ma se parlano tutti insieme sono più forti. Palermo è cosa nostra, la Sicilia è cosa nostra: quella dei mafiosi non è cosa nostra, è solo una cosa sporca.