AGI - Ritardi, omissioni, errori, bugie. Vista dalla Procura di Bergamo appare un’Italia fragile e senza scudi quella che provò a fermare il drago feroce che inghiottì migliaia di uomini e donne nella provincia più aggredita dal Covid. Le ipotesi di reato più gravi, omicidio ed epidemia, sono a titolo colposo.
Difficili da provare nel contesto di un’emergenza sanitaria, come già dimostrato da altre indagini archiviate, ma ritenute dai magistrati diretti da Antonio Chiappani le sole in grado di definire la posizione giudiziaria di chi guidava il Paese e la Lombardia nella primavera dei fiori sulle tombe del 2020. Ecco che allora le 35 pagine, approdo di un’inchiesta durata tre anni, restituiscono affermazioni come quella che accusa l’ex premier Giuseppe Conte e il ministro Roberto Speranza di aver “cagionato per colpa” la morte di una cinquantina di persone.
Con l'attuale leader dei 5 Stelle che "nelle riunioni del 29 febbraio e 1 marzo 2020, con i componenti del Cts", si sarebbe "limitato a proporre misure meramente integrative senza prospettare di estendere la zona rossa ai comuni della Val Seriana nonostante l'ulteriore incremento del contagio in Lombardia" e "l'accertamento delle condizioni che corrispondevano allo scenario più catastrofico". E un passaggio che ritrae il presidente Attilio Fontana come incapace di aver protetto i suoi cittadini perché in due mail del 27 e 28 febbraio 2020 “chiese il mantenimento delle misure vigenti non segnalando le criticità relative alla diffusione del contagio in Val Seriana, inclusi Nembro e Alzano Lombardo” nonostante l’indicatore R0 segnalasse che ogni infetto ne contagiava altri due.
E ancora, il presidente dell’Istituto Superiore della Sanità, Silvio Brusaferro, si sarebbe opposto all’applicazione del piano pandemico. A rappresentare la folla sterminata di chi si arrese, spesso solo e senza fiato in casa, i pm inseriscono nomi e cognomi di 57 familiari di morti. I capi d’imputazione sono pensati attorno a tre questioni: la mancata zona rossa, il piano pandemico ignorato e l’irrefrenabile contagio nell’ospedale di Alzano Lombardo.
La decisione dei vertici del governo e di Fontana di non sigillare i confini della Val Seriana, come accaduto nel Lodigiano dopo il primo caso a Codogno, avrebbe contribuito a far morire 4148 persone, “pari al numero dei decessi in meno che si sarebbero verificati in provincia di Bergamo se le restrizioni fossero state adottate il 27 febbraio”. Cinquantacinque vittime si sarebbero potute evitare proprio nei due paesi dove la popolazione venne assottigliata in poche settimane.
Il Cts, che per molti mesi è stato decisivo nell’aprire e chiudere i confini regionali, avrebbe sbagliato valutazione sulla Val Seriana nonostante avesse a disposizione le fosche previsioni, fondate su modelli matematici, di Stefano Merler. E allora responsabile di epidemia colposa sarebbe stato anche chi in quel consesso sedeva, oltre a Brusaferro: Claudio D’Amario, Mauro Dionisio, Giuseppe Ippolito, il presidente del Consiglio superiore della Sanità Franco Locatelli, Francesco Maraglino, Giuseppe Ruocco, Andrea Urbani, Agostino Miozzo. Non solo aggiornare il piano pandemico ma anche applicare quello vecchio per l’influenza del 2006 avrebbe reso meno violento il bilancio.
Per la Procura, D’Amario, Brusaferro e il capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, insieme al direttore generale della sanità lombarda Luigi Cajazza e a Gallera “rifiutavano di attuare le prescrizioni del Piano per una pandemia influenzale”.
Ma tanti altri argini si sarebbero potuti levare, secondo i pm. Dalla verifica della dotazione di guanti, mascherine e tutto quello che avrebbe potuto proteggere, al mancato censimento dei posti letto negli ospedali e dei ventilatori polmonari, ai piani di esercitazione dei sanitari mai fatti, ai deficitari protocolli di sorveglianza sui viaggiatori che arrivavano in Italia facendo degli scali.
Infine, l’indagine torna al punto zero dove venne registrato il primo caso di Covid nella provincia. Era il 23 febbraio, il 'Pesenti Fenaroli' venne riaperto poche ore dopo. A Giuseppe Marzulli, dirigente medico e Francesco Locati e Roberto Cosentina, entrambi dell’ ASST Bergamo est, vengono contestati i reati di epidemia e omicidio colposo perché, tra le altre cose, non fornirono dispositivi di protezione provocando “un incremento non inferiore al contagio di 35 operatori sanitari”.
Locati è indagato anche per falso perché scrisse che “erano stati fatti tamponi a tutti i sanitari” sin dal 23 febbraio; stessa ipotesi per Massimo Giupponi che, in qualità di direttore generale dell’Ats di Bergamo, avrebbe certificato che erano state create “aree di isolamento per i pazienti che accedevano al pronto soccorso con sintomi sospetti”.
I pazienti sarebbero invece rimasti per “diversi giorni” in attesa. Come scritto nella nota dal procuratore Chiappani, l’atto di chiusura delle indagini “non è un atto d’accusa” ma "una ricostruzione dei fatti" che lascia comunque aperte ampie possibilità di difesa per gli indagati visti anche i precedenti sulla pandemia in altri tribunali.
Le posizioni di Conte e Speranza saranno di competenza del Tribunale dei Ministri di Brescia. Nei prossimi mesi un giudice per l’udienza preliminare valuterà se queste ipotesi di reato devono essere sviscerate in un processo che, a quel punto, diventerebbe il processo alle istituzioni del Paese e della Lombardia in uno dei momenti più terribili.