AGI - “Sono passati più di 40 anni, ma lo ricordo come se fosse ieri: dovevamo raggiungere il nostro punto di ritrovo e, lungo la strada per Laviano, c’erano casse da morto allineate su tre fila per decine e decine di metri. Quando poi entrammo in paese, praticamente ogni casa aveva almeno una bara davanti”. In quel 1980 segnato dalla tragedia dell’Irpinia Fausto Gentili era un vigile del fuoco di leva (sarebbe entrato nel Corpo per concorso sei anni più tardi) e certo non poteva immaginare che quel terremoto sarebbe stato il primo di una serie vissuta con addosso una divisa e in testa e nel cuore un solo imperativo: salvare vite.
Umbria e Marche (1997), L’Aquila (2009), Emilia Romagna (2012), Italia centrale (2016-2017), Albania (2019): Gentili c’è stato tutte le volte ma – come racconta all’AGI – non si diventa “veterani” del dolore, e oggi che le tv trasmettono no stop le immagini della devastazione in Turchia e Siria e lui è in congedo da due anni, le emozioni restano uguali a quelle di un tempo, fortissime, impossibili da contenere.
Come la voglia, se fosse possibile, di dare una mano. “Perché, diciamo la verità – premette Gentili – il nostro non è un lavoro, è una missione. Complicata dal fatto che puoi studiare ed esercitarti quanto ti pare ma ogni intervento ha una storia a sé. E quando sei sul campo, devi sforzarti di adattare la teoria e la pratica alla situazione che ti trovi davanti. Devi essere bravo – tu e i colleghi che lavorano con te, perché la squadra è imprescindibile, senza squadra non si va da nessuna parte – a trovare la strategia migliore per portare a casa il risultato”.
“Lo stress è tanto, l’impatto emotivo di certi momenti durissimo da smaltire – ammette – ma ci sono momenti che ti ripagano da qualsiasi sacrificio: a Fonte del Campo, ad Amatrice, riportammo alla vita un 43 enne dopo 8 ore di lavoro. Otto ore passate a parlargli, a cercare di tranquillizzarlo mentre i sanitari consigliavano di amputargli la gamba incastrata dal crollo di un solaio. In quei frangenti fra te e te fai pensieri cattivi, non sempre riesci a vedere l'uscita. Ma quando poi lo abbiamo salvato, ho pianto, e mi sono detto ‘ora posso andare in pensione tranquillo..’. L’ho rivisto due anni dopo: camminava ancora con qualche difficoltà. Ma il film del salvataggio mi è ripassato davanti e la gioia è stata la stessa”.
Le case crollate, il pianto della gente, le macerie scavate a mani nude: “tutto torna, e tutto cambia, ogni volta. Arrivi sul posto, ed è l’adrenalina a tenerti su, non la razione K: sempre ad Amatrice, eravamo arrivati all’alba ma abbiamo messo qualcosa sotto i denti solo nel pomeriggio, un filone di pane portato da una signora. Prima avevamo pensato solo a bere”.
Le difficoltà sono sempre tante, ma per fortuna negli anni le cose sono molto cambiate, la qualità delle attrezzature è salita moltissimo, le misure di sicurezza implementate: “in Irpinia avevamo ancora le tende di stoffa con il palo centrale, quelle da campeggio. Non sapevi nemmeno dove andare in bagno, si scavava una buca e si buttava la calce. E per lavare i vestiti e le scodelle si accendeva il fuoco. Oggi ci sono le tende ad aria, strutture dove fai tutto, ti lavi, mangi, dormi (poco), esci solo per tornare al lavoro. Lo stesso vale per i mezzi: i camion di quando ho cominciato io avevano il cambio manuale senza selettore, quelli di oggi si guidano come una normale auto”.
Tutto alla fine concorre a ridurre di molto i rischi, senza mai azzerarli. “Nel ’97, a Gualdo Tadino salimmo su un tetto a mettere in sicurezza parte di un comignolo crollato. Eravamo in 4, quando già eravamo su d’improvviso la terra è tornata a tremare, ‘qua viene giù tutto” ci siamo detti e ci siamo abbracciati. Il tempo di scendere, e siamo tornati in pista. Con un’altra storia da raccontare, per fortuna”.