AGI - "L'affermazione che le corresponsioni ottenute da Mariano Apicella costituissero il prezzo della corruzione, in quanto effettuate "per rendere e per aver reso le false testimonianze" deve necessariamente essere valutata alla luce del rilievo che tra Silvio Berlusconi e Mariano Apicella intercorreva un rapporto personale di lunga data, non strettamente correlabile alle false deposizioni testimoniali rese da quest'ultimo nell'ambito dei processi 'Ruby1' e 'Ruby2".
Così si legge nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso 17 novembre i giudici della seconda sezione penale del tribunale di Roma hanno assolto Silvio Berlusconi e Mariano Apicella, con la formula "perché il fatto non sussiste" nel filone romano del processo Ruby Ter che vedeva l'ex premier imputato per la presunta corruzione legata alla falsa testimonianza del cantante napoletano riferita alle feste organizzate ad Arcore.
I giudici avevano inoltre dichiarato la prescrizione per l'accusa di falsa testimonianza nei confronti di Apicella. Anche la Procura di Roma aveva chiesto per entrambi l'assoluzione. "Tale rapporto, secondo quanto è dato sostenere dalle evidenze documentali e dalle stesse affermazioni rese da Apicella, è incisivamente connotato da plurimi 'favoritismi' provenienti da Silvio Berlusconi che, a titolo di liberalità, prestiti infruttiferi e quant'altro, aveva storicamente sostenuto economicamente il musicista, alla stregua di un inossidabile patto di solidarietà. Da ciò consegue che, ancorché Mariano Apicella abbia dichiarato il falso nel corso delle deposizioni testimoniali rese alle udienze del 19 ottobre 2012 e 22 marzo 2013 - sottolineano i giudici - l'esistenza di tale mendace testimonianza non è univocamente indicativa dell'esistenza di un pregresso e/o successivo accordo corruttivo tra gli imputati".
"In conclusione, l'assenza di inequivoci e stringenti elementi di prova a sostegno dell'assunto sinallagma corruttivo, in uno con l'accertata esistenza di un consolidato e risalente rapporto di natura professionale ed addirittura 'amicale' tra gli imputati, rende allora insuperabilmente problematica l'affermazione dell'esistenza stessa di un illecito accordo. A fronte delle rilevate lacune istruttorie, gli accertati bonifici - concludono i giudici della seconda sezione penale di Roma - non risultano idonei a costituire il precipitato fattuale e logico dell'indimostrato patto corruttivo, potendo per converso ricondursi la condotta degli imputati, per quanto opaca, a diverse e pure verosimili dinamiche oggettive".