AGI – L’incrostazione è così profonda e spessa che non sarà facile o questione di breve tempo per riportare alla “normalità” piu' o meno scontata la contrapposizione tra la tifoseria romanista e quella napoletana. Lo sanno bene anche gli investigatori e chi è preposto all’ordine pubblico. Nel volgere di anni si è passati dagli abbracci e dalle bevute insieme prima e dopo una partita, all’Olimpico o al San Paolo, agli agguati studiati a tavolino, con una strategia che ha quasi del militare perchè programmati a distanza di molto tempo dall’evento che poi andra- nelle intenzioni - ad essere violato o disturbato.
In una escalation che rischia di salire sempre più di portata e, purtroppo, di conseguenze, coinvolgendo inconsapevoli passanti o, come nel caso di domenica scorsa, automobilisti in transito sull’A1. E il fatto che l’agguato – non si sa ancora bene, ma resta la gravità, se partito dai tifosi romanisti o da quelli napoletani, gli uni diretti a Milano e gli altri a Genova – sia avvenuto nel tratto interessante l’area di servizio nelle due direzioni nord e sud di Badia al Pino, nell’Aretino, è la conferma per gli investigatori che quell’impatto non sia stato una casualità.
Un'area di servizio diventata simbolo
È un’area di servizio balzata alla cronaca ormai 15 anni fa, quando un gruppo di tifosi della Lazio diretti a Milano entra in contatto con ultrà della Juve e il tifoso biancoceleste Gabriele Sandri viene ucciso da un colpo di pistola esploso da un agente di una pattuglia della polizia intervenuta nell’area. Da allora la stazione di servizio di Badia al Pino è diventata una sorta di ‘simbolò, il luogo dove gli ultrà di diverse squadre sembrano o vogliano darsi appuntamento per regolare i propri conti. Lo sanno anche gli investigatori ma per quanto ampia, volenterosa e professionale sia la loro capacità e possibilità di intercettare informazioni e piani di battaglia, non sempre si riesce a prevenire e neutralizzare la strategia di scontro che qualcuno a tavolino ha già programmato con largo anticipo.
Così Badia al Pino si ritrova rimessa al centro della cronaca. E in quel territorio solo in apparenza neutrale – ma poi devastato – ecco che le due tifoserie ultrà danno corpo, renderndola evidente, a una rivalità accesa che mette a rischio – come sottolineato anche dal Capo della Polizia, Lamberto Giannini – la sicurezza pubblica intesa nel suo significato più ampio. Richiamando la necessità di un giro di vite. Rivalità che assurdamente – stando alla pubblicistica di questi anni - prende le mosse nel 1986 non da un episodio che coinvolgesse in partenza un tifoso giallorosso e uno azzurro, ma dal passaggio del centravanti Bruno Giordano dalla Lazio al Napoli, dove andò a comporre il tridente di fuoco con Maradona e Careca.
Nascita di una rivalità
L’attaccante in precedenza, quando ancora militava nella Lazio, era stato preso di mira dalla Curva Sud romanista. Che continuò a ritenere Giordano un bersaglio anche quando vestiva una nuova maglia in campo. E infatti quando poi il Napoli affrontò, un anno dopo, la Roma all’Olimpico, ecco i fischi contro la formazione ospite, in una partita che poi registrò il famoso gesto dell’ombrello da parte di Bagni proprio sotto la Curva Sud dopo il pareggio definitivo degli azzurri nonostante fossero in inferiorità numerica. ‘Alea iacta est’, sembrerebbe essere avvenuto da allora. A farne le spese anche l’Argentina: una salva di fischi al momento dell’inno nazionale dell’Albiceleste prima della finale dei Mondiali del 1990 persa 0-1 all’Olimpico contro la Germania, e il ‘pibe de orò lanciò il suo anatema: “Hijos de puta”.
Per i romanisti non era un argentino che proferiva quelle parole ma uno che vestiva la maglia del Napoli… E nel giro di qualche anno fu un crescendo di agguati, scontri, sassaiole alla periferia del capoluogo campano quando doveva arrivare la Roma oppure in stazioni ferroviarie, Termini compresa durante il transito di un convoglio di tifosi napoletani, o più lontano, in autostrada al Nord e sempre sapendo bene dove fare il blitz. Mai casuale, mai occasionale.
L'omicidio di Esposito, una ferita aperta
A rendere piu profonda e pervasiva la rivalità è stato poi nel 2014 l’omicidio di Ciro Esposito, tifoso napoletano, morto dopo una agonia di 50 giorni in seguito a un colpo di pistola esploso da un ex ultrà della Roma – Daniele De Santis, condannato in primo grado a 26 anni poi ridotti a 16 - all’esterno dello stadio Olimpico poco prima della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina. Da allora è come se fosse stato scritto che tra le due tifoserie non ci sarebbe mai stata pace, la vendetta per quell’omicidio – nonostante la madre di Ciro abbia fatto e faccia ancora di tutto per favorire invece aggregazione – non sarebbe mai stata placata.
Cambiano i soggetti, cambiano i nomi dei fan club, le tifoserie si adeguano alle nuove norme, eppure resta immutato il messaggio: guerriglia, caccia all’uomo in giallorosso. E gli ultrà in giallorosso non intendono restare inermi, né vi restano con le mani in mano. In uno scontro strisciante ma continuo, come un vulcano all’apparenza freddo ma che d’improvviso erutta violenza. Poi di nuovo il silenzio, insieme al lavoro sotterraneo degli ‘strateghi', che non disdegnano di allargare la propria rete di fiancheggiatori, trovando spazio e accordi con altre tifoserie, e addirittura di oltre confine, che si prestino – alla bisogna – di portare avanti questo piano. In attesa della prossima occasione da non farsi scappare.