AGI - “Merica! Merica!”, gridavano e scrivevano i contadini veneti e friulani emigrati in America Latina tra il 1876 e il 1902 nelle loro corrispondenze con i familiari lasciati a casa: mogli, figli, genitori. Lettere analizzate dallo storico veneto Emilio Franzina in un prezioso volume pubblicato da Feltrinelli alla fine degli anni ’70 e poi rieditato nel 2008. Lettere che attestano “una cultura prevalentemente orale”, ma segnata dai “primi notevoli processi di alfabetizzazione” verso fine dell’Ottocento, nelle campagne del Nord, l’area da cui in prevalenza proveniva il flusso emigratorio verso l’Argentina, il Brasile, poi Ellis Island, l’isolotto nello stato di New York, approdo obbligato per la via degli Stati Uniti.
Ogni lettera “è una storia a sé”, scriveva nella prefazione lo scrittore Mario Rigoni Stern, nell’accezione popolare di ‘quanto si può tenere a mente e che si presta ad essere narrato e rinarrato infinite volte’".
Una migrazione lunga più di un secolo, che accompagna l’ultimo quarto dell’Ottocento, subito dopo l’Unità d’Italia, nel 1861, poi gran parte del Secolo breve, il ‘900, e che continua nel terzo millennio, con la “fuga dei cervelli” e delle nuove generazioni che continuano a guardare oltre, al di là della Manica o dell’Oceano, costrette ancor oggi ad espatriare per trovare un po’ di futuro, un minimo di prospettive, speranze e una migliore qualità della vita.
A ogni regione la sua migrazione, a ogni migrante il suo particolare Paese d’approdo. Francia, Germania, Svizzera, Belgio, Canada, Australia, ma anche Turchia, Libano, Grecia, Libia e persino l’Ucraina, oggi quotidianamente menzionata per la guerra scatenata dalla Russia, proprio verso Odessa, la città bombardata, a partire dalla notte dei tempi, già nel Duecento.
E a ogni Paese d’arrivo un mestiere, dal coltivare la terra al solcare i mari, dalle miniere alle fabbriche ai cantieri ai porti. Milioni di persone in fuga. Si calcola che tra il 1861 e il 1985 abbiano lasciato l’Italia tra i 24 e i 27 milioni di connazionali per i lidi più diversi. Parte dei quali, nel tempo, si è riprodotta generando a propria una sfilza di discendenti, i cosiddetti “oriundi”, che si calcola oscillino in un numero compreso, in giro per il mondo, tra i 60 e gli 80 milioni.
È la storia di un’avventura e di un “miracolo italiano”, che non è solo quello dello sviluppo degli anni ’60 nel nostro Paese, ma che è ha avuto luogo “all’estero”, oltre confine, fuori dai confini della nazione Italia.
Le cinque tappe della fuga dall’Italia
Sono sostanzialmente cinque le tappe della emigrazione italiana. La prima, che va grosso modo dal 1876 al 1900-1902 frutto e conseguenza della grande crisi agraria degli anni ’70 dell’Ottocento, e che ebbe per protagoniste oltre 5 milioni di persone.
Un espatrio per lo più individuale, solitario e di genere maschile. Ma è una emigrazione che parte in prevalenza dalle regioni del Nord Italia puntando verso i Paesi europei e soprattutto l’America Latina.
Segue poi una seconda fase, tra il 1900 e il 1914, poco prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, in cui la migrazione coincide sostanzialmente con l’avvio dello sviluppo industriale in età giolittiana, quindi con il progressivo abbandono delle campagne da parte dei contadini.
Ed è una emigrazione in prevalenza extraeuropea, per il 70% composta di soli uomini che si lasciavano alle spalle le regioni meridionali con l’obiettivo di raggiungere la Francia, la Svizzera e la Germania, luoghi non agevoli ma economicamente più rassicuranti, in cerca di manodopera per le miniere, l’edilizia, l’edificazione di strade, ferrovie, ponti.
Ha coinvolto famiglie intere per un. periodo piuttosto lungo e un esodo controllato da una “Legge generale sull’emigrazione” che il governo Giolitti pensò di adottare al fine di limitare la speculazione ai danni degli emigranti e a loro tutela.
Nella terza tappa, compresa tra le due Guerre Mondiali, si è avuto un’attenuazione del fenomeno migratorio sia per la guerra stessa, le necessità dell’arruolamento, le misure anti-migratorie imposte dal regime fascista e ma anche a causa delle misure restrittive adottate dai paesi ospiti per limitare gli ingressi.
La quarta tappa, che va dal 1946 al 1970, vede invece svilupparsi una forte migrazione interna, in particolare dal sud verso le regioni industrializzate del nord – Piemonte, Lombardia, Veneto – in forte crescita produttiva e bisognose di manodopera per sostenere il boom economico.
La quinta e ultima tappa di emigrazione italiana all’estero subisce un’accelerazione nella seconda meta del primo decennio Duemila (2008) in conseguenza della prima grande crisi internazionale in seguito allo scoppio della bolla della 'new economy', di un arresto generalizzato dell’economia, da cui il mondo ha fatto in genere difficoltà a riprendersi, salvo rari sprazzi positivi di luce, ma sempre in una dimensione altalenante e poco certa.
Comincia a partire dalla Generazione Erasmus, bisognosa di nuovi stimoli, a cui si somma la “fuga dei cervelli” – menti scientifiche, creative, acculturate – che in patria non trovano sbocchi adeguati ai propri livelli di istruzione e preparazione, costrette ad una perenne condizione di gavetta e precariato protratto al limite dell’insulto e della vergogna.
Meno emigrati più immigrati
Nel mezzo, tra il 1970 e il 2008, si è avuta di fatto una stagnazione di emigrazione dall’Italia verso altri Paesi mentre si è invece registrata una forte propensione all’immigrazione verso il nostro Paese, una radicale inversione di tendenza iniziata con i primi flussi di studenti, lavoratori e lavoratrici provenienti da Eritrea, Etiopia e Somalia, dalle ex colonie italiane, oppure da altri paesi dell’Africa settentrionale, per lo più donne che s’inseriscono nel lavoro domestico di casa nostra.
Alla fine degli anni Sessanta, primi dei Settanta, cominciano poi ad arrivare i primi “dissidenti politici”, esuli in fuga dalle dittature latinoamericane che cercano rifugio soprattutto nelle grandi città italiane come Roma.
Nel 1973 si assiste al picco degli esuli cileni, in seguito al golpe del generale Pinochet avvenuto l’11 settembre di quell’anno in Cile, che porta i militari al potere e ad uccidere il presidente Salvador Allende, prigioniero nel palazzo de la Moneda sotto l’attacco incrociato di elicotteri e soldati alla porta d’ingresso.
Ma la vera svolta arriva tra il 1989 e il 1982, quando i flussi cambiano radicalmente anche in seguito al crollo del Muro di Berlino che segna la fine della Guerra Fredda tra Est e Ovest per poi avviare quella fase della “distensione” tra Oriente e Occidente, favorita da un avvio di dialogo tra Unione Sovietica e Stati Uniti, favorita anche dall’intraprendenza del presidente sovietico Michail Gorvacev e del suo omologo americano George H. W. Bush senior.
Ed è la stagione che vede i primi sbarchi di navi sovraffollate di profughi dall’Albania, ammassati all’inverosimile sulle “carrette del mare”, imbarcazioni fatiscenti, arrugginite, seguiti a ruota nei primi anni ’90 dagli immigrati provenienti dall’est e, segnatamente, dalla Polonia.
Tutti in cerca di lavoro e in fuga dalla crisi economica del loro Paese. Flusso migratorio reso favorevole e attratto anche dalla presenza a Roma, nella Città del Vaticano, del Papa polacco per eccellenza, Karol Wojtyla, al secolo Giovanni Paolo II eletto al soglio di Pietro il 16 ottobre 1978 e che ha governato la Chiesa di Roma fino all’1 febbraio 2005, giorno della sua morte.
Il resto è attualità. È storia di fughe dalle guerre, dalle carestie, dalla fame, dalla povertà, dalla disperazione di condizioni umane e personali al limite della tollerabilità. È storia di tentativi di raggiungere il miraggio delle coste italiane, specie quelle del Sud Italia, con sbarchi spesso riusciti ma anche di frequenti naufragi in mezzo al mare con centinaia di vittime. È storia di sbarchi continui, fatti di quarantene, ma anche accoglienza oppure di respingimenti.
È attualità e storia recente, di tutti i giorni. Specie di quest’ultimi.