AGI - “Non è tutto perduto”, scrive il Paìs. Eppure ci sono ancora tavoli dove non si sente la frase: "Questi pomodori non sanno di niente". Parole tristi quanto la realtà che riflettono, perché “un pomodoro insapore e duro rientra nella categoria delle cose più dolorose della vita”, ma - al contrario – “un pomodoro saporito e carnoso ci regala subito altrettanta felicità, quasi per magia”.
Tuttavia il fatto che quei pomodori e altre verdure che rendono felice la nostra esistenza e il nostro palato – dove il pomodoro sa proprio di pomodoro – possano esistere ancora è dovuto essenzialmente a due fattori: da un lato, grazie agli agricoltori che con attenzione conservano le tradizioni e anno dopo anno coltivano con sementi - ossa, vinaccioli - ottenute dai loro stessi prodotti, che consentono di tenere in vita varietà antiche, dall’altro perché nel frattempo si sta diffondendo la pratica di mantenere vive queste stesse antiche varietà. Che magari non rispetteranno i canoni estetici che vuole o impone il “mercato”, e forse anche meno produttive, ma “senza dubbio più gustose”.
Il quotidiano racconta che José Miguel Romero, che presiede l'Associazione Ortofrutticola Andalusa (Hortoan), domenica scorsa ha organizzato uno “scambio di semi” e un mercato di ortaggi autoctoni e di varietà antiche nella piazza di Niguelas, a Granada, che ha per obiettivo “reperire varietà diverse da quelle che le grandi aziende mettono sul mercato”. Cosa tutt’altro che facile.
L’iniziativa è nata 15 anni fa e si rinnova di anno in anno. Romero spiega perché pomodori, patate o cetrioli erano, in generale, più ricchi: "Gli agricoltori selezionavano i semi per il loro sapore" mentre “ora la selezione si basa sulla capacità produttiva, nella varietà che dà più peso". Quantità contro qualità.
Nel mercato ortofrutticolo di Granada, si può leggere sul quotidiano, il perimetro della piazza è occupato da produttori che vendono i loro prodotti tradizionali e biologici mentre “il centro è occupato da un grande tavolo pieno di vasi con semi, a disposizione di chi vuole lasciare i propri e prendere quelli degli altri” facendo uno scambio.
C’è chi porta una zucca enorme e i suoi semi. La coltiva da quattro anni ma, la storia della zucca risale almeno a "50 o 60 anni fa", mezzo secolo in cui i semi di un frutto hanno dato vita, in una rigida sequenza genealogica, al frutto successivo.
Al mercato si trovano semi di ogni genere: dalla patata autoctona (in Perù, culla della patata, ce ne sono 4 mila varietà) alle zucchine ai pomodori ai peperoni, a ogni genere d’ortaggio, specialmente se antico.
Nessuno dei contadini comunque è interessato a creare una banca del seme”, ma – semmai – “a preservarli e coltivarli” di modo che continuino ad essere “scambiati e coltivati”. Al naturale.
La Ue: “Niente scambi, dev’esser regitrato”
In Italia, spiegano da Slow Food, una cosa di questo genere non sarebbe permessa in base alle normative Ue “perché tutto deve essere registrato su un apposito registro” delle sementi e deve esser tracciato. Però qualche esperienza sparsa qua e là esiste. Come ne caso di Monte Frumentario, associazione di 14 soci nata nel 2011 che fa capo alla Cooperativa Terra di Resilienza che si trova a Caselle di Pittari, in provincia di Salerno, la quale “conserva la sua funzione di prestito delle sementi”, in particolare frumento e legumi, “contribuendo al benessere delle comunità e consentendo azioni di mutualismo”. Ogni anno organizza il Palio del Grano.
Nello specifico, “le azioni di mutualismo non si fermano alle funzioni primarie del Monte frumentario, ma prevedono la costituzione di una banca del germoplasma dal basso, lo scambio di manodopera tra i soci e di varietà di grano, la divisione dei costi per particolari investimenti, la condivisione delle azioni politiche comuni che si ritengono necessarie e ogni forma di aiuto tra i coltivatori”, come si legge sul sito dell’associazione.