AGI - Prima o poi bisognerà pensarci: con l'intensa siccità, le ripetute ondate di caldo o le inondazioni, la nostra agricoltura è messa a dura prova. Quindi il tema è: come possiamo farvi fronte e salvare l’agricoltura? Possiamo reiventarla salvando campi e animali?
“Prima, il progresso in agricoltura riguardava l'aumento della produzione. Oggi bisogna essere produttivi e resilienti, il che significa produrre grano anche quando fa caldo o ci sono inondazioni. L'obiettivo è trovare varietà più resilienti e adattare i metodi di coltivazione in alleanza con la natura piuttosto che combattere contro la natura”, risponde agli interrogativi l'ingegnere ed economista Bruno Parmentier, specialista in problematiche agroalimentari nell’analizzare la situazione per in un intervista al francese Nouvelle Observateur.
Perciò, secondo Parmentier, si tratta di “cambiare il nostro rapporto con la natura. Una delle chiavi è mettere in discussione il simbolo stesso dell'agricoltura: l'aratura. Per 3000 anni, i contadini sono stati spremuti nell’arare. Solo ora scopriamo che questo è il principale attacco dell'uomo alla natura. Distrugge la vita del suolo, in particolare i lombrichi. Il loro lavoro è decisamente fantastico per il terreno: quando non li disturbiamo, loro creano gallerie verticali cosicché quando piove in inverno, questo immagazzina l'acqua per i campi” mentre invece “nel nostro sistema attuale, l'aratura indurisce il terreno: quando piove, non penetra nel terreno".
I lombrichi, inoltre, "aiutano anche ad allungare le radici delle piante annuali: quando il terreno è duro, il grano o il mais hanno 30 centimetri di radici; quando è sciolto, le stesse piante riescono a fare radici di 1,50 metri o 2 metri. Ed è esattamente dove è stata immagazzinata l'acqua! Infine, è anche necessario riporre alberi, coprire le piante. Tutto questo ecosistema equilibrato manterrà l'acqua e resisterà molto meglio alla siccità”.
Ma per lo specialista in problematiche agroalimentari è anche giunto il momento di prendere coscienza della situazione-limite a cui siamo arrivati e cambiare i nostri modelli di consumo. E per questo obiettivo, consiglia, “dobbiamo assecondare e accelerare il movimento naturale. Nel XX secolo, ad esempio – prosegue – in Francia abbiamo aumentato enormemente il consumo di carne e di latte".
Il problema è che "è un concentrato di prodotti vegetali. Il pollo, ad esempio, mangia grano, mais, soia e colza. Solo che l'operazione di trasformazione delle piante in animali è molto scarsa in termini di redditività. Il pollo, uno degli animali più redditizi, è 4 chili di verdure per 1 chilo di carne. Il maiale è 6 chili di verdure per 1 chilo di carne. Il manzo è 13 chili di verdure per 1 chilo di carne”, quindi “se, nei paesi dove mangiamo troppa carne e beviamo troppo latte, riduciamo drasticamente i consumi, riduciamo di molto il drenaggio del pianeta”, spiega.
Meno carne e prodotti esotici
Facendo un po’ di calcoli, Parmentier sostiene anche che “negli anni '30 i francesi consumavano in media 30 chili di carne e 30 chili di latte all'anno, rispetto ai 100 chili di carne e 100 chili di latte negli anni 2000. Ovviamente l'allevamento nel nostro paese si è sviluppato in modo significativo per soddisfare questa richiesta. Ma possiamo vedere chiaramente che ogni curva è a campana e che arriviamo al massimo”.
Attualmente, spiega Parmentier, la tendenza è invertita: si è passati da 100 chili a 90 chili per il latte e da 100 chili a 80 chili per la carne. La diminuzione che avverrà nei prossimi venti o trent'anni sarà probabilmente il doppio della diminuzione sperimentata negli ultimi vent'anni. La sfida ora sarà vincere la battaglia vinta dai viticoltori sin dagli anni '50, privilegiando la qualità alla quantità”, conclude.
Tuttavia, per l’analista, non tutti i Paesi sono uguali di fronte a questa sfida e spiega che se si vuole vincere la sfida agricola “in Europa, se mangiamo meno carne, meno prodotti esotici, se sprechiamo meno, ci riusciremo. Ma, nel resto del mondo, c'è più di un motivo di preoccupazione: pochi paesi o regioni sono autosufficienti come l'Europa".
"Ci sono 80 paesi al mondo che importano grano contro 7-8 paesi capaci di venderlo”, tant’è che in Egitto - ad esempio - “in un deserto attraversato da un fiume, solo il 4% della terra è arabile. Possono essere molto bravi nell'irrigazione, ma non puoi nutrire 110 milioni di persone in un deserto. Quindi l'Egitto è, anno dopo anno, il più grande importatore mondiale di grano. Con la crisi climatica o la guerra in Ucraina, questo può creare problemi su scala globale”.
E tutto questo perché, analizza ancora l’ingegnere-economista, “tutti i cereali necessitano all'incirca della stessa quantità di acqua. Ci vuole circa una tonnellata di acqua per fare un chilo di grano. Per il grano, la tonnellata d'acqua deve cadere in marzo-aprile-maggio, mentre per il mais è in giugno-luglio-agosto. Non è affatto la stessa cosa” perciò “è probabile che cambieremo le nostre culture. Potremmo piantare altre piante dei tropici secchi, come il sorgo”, spiega.