AGI - "Dal 14 gennaio o credete a loro, o credete a La Repubblica": slogan ardito, forse un po' pretenzioso, per un giornale che dal niente nasceva e già aveva l'aria di voler suggerire due cose.
La prima che esiste una verità alternativa; la seconda che esiste, di essa, un depositario. Niente di tutto ciò: siamo troppo in anticipo sui tempi. Era infatti, quella deadline, il 14 gennaio del 1976, cioè cinquant'anni prima che la suddetta realtà alternativa trionfasse addirittura nella corsa alla Casa Bianca.
Non era questo, del resto, lo scopo dell'uomo e nemmeno la sua cifra culturale. Tutt'altro. Eugenio Scalfari ha lasciato oggi un mondo che laicamente ha vissuto fino in fondo, pur senza disdegnare chiacchierate con il Vicario che sono state propedeutiche a quella con il Principale.
Assistere all'incontro sarebbe assai interessante, perché c'è da scommettere che nessuno dei due cederebbe al timore reverenziale nei confronti dell'altro.
La qual cosa, sia chiaro, va a tutto merito del Principale giacché Scalfari ormai anziano amava ricordare di aver vinto, ancor bambino, il campionato degli esperti di catechismo di tutte le parrocchie di Roma. Non ti credere, ne so quanto te.
Lui era così: vocato all'eccellere. Giovane si dedica al giornalismo e diventa caporedattore di Roma Fascista, testata con scarso bisogno di presentazioni. Ne fu cacciato nel 1943. Dopo la guerra la Bnl, esperienza da cui uscaì formato alla chiamata ad eccellere anche nell'arte del tenere i conti.
Tornò al giornalismo quasi subito, comunque, e da direttore amministrativo dell'Europeo: uno di quei settimanali che leggevano anche quanti la pensavano altrimenti, ed è la miglior prova della qualità. Non tardò a divenirne anche direttore responsabile.
Nel frattempo aveva addirittura fondato un partito, inutile dire un partito destinato a lasciare il segno come il Partito Radicale. Lui proveniva dai liberali del Pli, ma la cosa non sia presa come forma d'incoerenza.
Al contrario: segnò la strada alla nascita di una cultura laico-riformista non senza un tuffo nel socialismo all'italiana che alla lunga sarebbe divenuta, se non dominante, di certo poderosa.
A riprova della bontà dell'intuizione si ricordi che, mentre i democristiani altezzosi volgevano il loro sguardo altrove, i liberali-pannelliani approntavano la bomba che ne avrebbe minato per sempre la supremazia, vale a dire quella legge sul divorzio che reca la firma di Loris Fortuna, socialista, e Antonio Baslini, liberale.
Ma non si corra troppo, perché prima bisogna parlare di un grande scoop. Sul finire degli anni Sessanta, infatti, lo Scalfari ormai direttore di un altro settimanale pieno di gloria come l'Espresso rende di pubblico dominio l'impensabile: l'Italia è stata ad un passo dal colpo di Stato militare.
È il cosiddetto Piano Solo, orchestrato da un generale chiamato De Lorenzo. Questi querela, il pubblico ministero chiede l'assoluzione degli imputati (oltre a Scalfari, Lino Jannuzzi) ma i due si beccano ugualmente un anno e passa di reclusione.
Non sconteranno la pena perché - anche qui siamo di fronte ad un modello che ha avuto altri epigoni - vengono eletti in Parlamento nelle file del Partito Socialista. La sera si continua ad andare a Via Veneto, ed intanto viene in mente un pensiero stupendo.
Sono anni difficili per l'editoria, dal punto di vista concettuale più che amministrativo. L'Italia cambia e persino il '68, neo o postmarxista che sia, non soddisfa l'intelligentsia laico-riformista, la quale non ama il partito dei cattolici e non ama nemmeno la sinistra classica.
Emerge, se non nella società almeno ai suoi piani alti, un mondo cui occorre dare voce. Un mondo non lontano - tutt'altro - dai ceti produttivi, liberale o lib-lab (dove la seconda parte del binomio sta per "laburista"), libertario a tratti come a atteggiamenti. Insomma, l'Italia degli anni Settanta, giunti alla loro meta', ha bisogno di qualcuno che sia eccellente nell'arte di darle voce, e di diventarne così il demiurgo, l'artefice.
E quest'uomo non poteva che avere il nome di Eugenio Scalfari. Questo spiega lo slogan con cui "Repubblica", che all'epoca ancora amava usare l'articolo davanti, tappezzò i muri di mezza Italia. L'altra metà non interessava.
Magari si rivolgeva, quest'altra metà, ad una testata che vedeva la luce in quei medesimi anni, a sua volta dotata di un signor Fondatore: Il Giornale di Montanelli. Ma questa è un'altra storia, se non altro perché Montanelli non ha mai pensato ad un giornale-partito, mentre Repubblica ai partiti si è sempre rivolta quasi da pari a pari.
Con i repubblicani di Spadolini si andava d'accordo. Persino per i democristiani di De Mita ci fu una sorta di infatuazione: del resto De Mita fu il primo politico a parlare di superamento delle categorie antiquate di destra e sinistra. Ma con Bettino Craxi ed il suo Psi a trazione proudhoniana le cose non furono così scontate.
I maligni, i detrattori, e mormoratori sostennero che tra i due fosse insorta una rivalità in quanto entrambi puntavano a guidare da sinistra la carica della cavalleria contro le classi operaie; ma di cattiverie per l'appunto si tratta.
Più concreta l'idea che a Craxi andasse troppo bene Berlusconi per andare d'accordo con Scalfari, ed il Lodo Mondadori sta lì a dimostrarlo. Fatto sta che Mani Pulite non fu certo ostacolata da Repubblica, e che il quotidiano che sarebbe rimasto ancora qualche anno sotto la guida del suo Fondatore avrebbe guidato la carica della cavalleria contro il Cavaliere.
E che così facendo avrebbe di fatto trascinato dietro di sé la sinistra italiana tutta, anche quella postmarxista divenuta nel frattempo intellettualmente pannelliana. Fine del giro, vittoria assegnata: Eugenio Scalfari la storia del suo Paese l'ha scritta e non solo battendo sulla tastiera.
Soddisfatto di sé, egli alla fine si è tolto persino lo sfizio di dedicarsi al suo vecchio amore di gioventù, che poi è la filosofia. Quanto alla religione, eccolo andare a trovare a Santa Marta il Papa che viene da lontano.
In lui, in Scalfari, Bergoglio ha visto probabilmente l'immagine della Atene cui San Paolo si rivolgeva parlando all'Areopago. Ma non sempre le cose sono andate così lisce.
Una volta, ad esempio, dopo uno di questi colloqui Repubblica uscì con una intervista al Pontefice da cui si poteva evincere che il Papa di Roma non credesse all'esistenza del Purgatorio. Apriti cielo.
Proponiamo una soluzione al caso: nel riportare la conversazione, Scalfari potrebbe aver fatto confusione tra le risultanze del Concilio di Lione II e gli scritti di un laico socialista liberale francese a lui contemporaneo, il grande medievista Jacques Le Goff.
Ma ci sono cose, ci sono Misteri, cui occorre credere e basta, perché trovarne la spiegazione alternativa su un giornale è davvero cosa impossibile.