AGI – Otto anni di indagini e processo per una diffamazione via Facebook nonostante la polizia giudiziaria avesse sollecitato la Procura di Monza ad archiviare già nel 2015, dopo i primi accertamenti seguiti alla denuncia, perché i presunti autori del reato non sarebbero mai stati identificabili. A riferire all’AGI della vicenda è l’avvocato Barbara Indovina, anche docente di informatica alla facoltà di Legge della Bocconi, che difendeva alcuni degli indagati.
I fatti: sul gruppo social di un piccolo paese a nord di Milano, in un flusso di ricordi sui tempi che furono, quattordici persone esprimono commenti poco lusinghieri su un vecchio bar degli anni Ottanta i cui gestori se la prendono a male e si rivolgono alla giustizia.
Perché sono condanne quasi impossibili
Vengono convocati uno a uno come testimoni e poi tutti indagati dopo che gli viene messo di fronte lo screenshot dei loro post. La polizia giudiziaria, esperta di informatica, mette in guardia la magistratura che con ogni probabilità non si andrà da nessuna parte.
La ragione la spiega l’avvocato Indovina: “Quando un cittadino italiano si iscrive su Facebook o piattaforme simili, i dati della registrazione vengono presi da loro. Ma negli Stati Uniti la diffamazione non è un reato perché ci si richiama al primo emendamento della Costituzione e, in mancanza di reciprocità, non c’è collaborazione con le autorità italiane per identificare gli autori di quella che da noi potrebbe essere una diffamazione”.
Ed eccoci alla sentenza: tutti assolti perché non è stato possibile identificarli. I gestori del bar hanno anche rifiutato una transazione nel corso del processo, convinti che avrebbero ‘vendicato’ l’offesa alla loro attività, finendo inghiottiti in un tempo infinito di consulenze e spese legali.