AGI - Si chiamava Adriano Trevisan, pensionato dell’operoso paese veneto Vo’ Euganeo, grande amante delle carte, protagonista di epiche partite con gli amici nel bar in piazza. L’ultima partita gli è stata fatale: la febbre che non se ne va, le difficoltà respiratorie, il ricovero d’urgenza e in due giorni, il 21 febbraio 2020, la morte.
Parte necessariamente da lui, prima vittima ufficiale del Covid in Italia, il ricordo di questi due anni da incubo nel primo giorno senza stato di emergenza, il simbolico avvio di una nuova stagione di convivenza. In quei primi giorni era ancora possibile, per i giornalisti, fare una scheda sulle vittime del giorno. Pensionati, con patologie, anziani, qualcuno forse un po’ meno anziano, morti, si diceva, “con” Covid e non “per” Covid.
Poi lo tsunami ha travolto tutto, e i nomi e le storie delle vittime sono diventati solo numeri, letti dagli italiani prima con angoscia, poi con rassegnazione, e poi quasi con fastidio. Dopo Adriano Trevisan ne sono morti, solo in Italia, quasi 160mila.
Ma quando l’allora premier Giuseppe Conte proclama lo stato di emergenza, il 31 gennaio del 2020, nessuno può immaginare cosa sarebbe successo. Un nuovo coronavirus in Cina, annunciato con grave ritardo da Pechino solo il 31 dicembre 2019 (appena in tempo per chiamarsi, appunto, Covid-19), ospedali da campo, lockdown estremi in province cinesi grandi come l’Italia.
Ma per un mese la situazione sembra reggere: si intensificano i controlli agli aeroporti, si prescrive il tampone per chi è stato di recente in Cina. Il primo choc il 30 gennaio, con la scoperta che il virus è in Italia, nel corpo di due miti turisti cinesi.
Ricoverati allo Spallanzani, i bollettini quotidiani dell’ospedale vengono seguiti con angoscia: tutti capiscono, magari inconsciamente, che il destino dei due anziani potrebbe essere quello che ci aspetta. Proprio sull’onda del ricovero dei due cinesi (che presto si aggravano, sfiorando la morte e venendo salvati solo dall’eccezionale esperienza dei medici) viene proclamato lo stato di crisi, e contestualmente il blocco dei voli dalla Cina, primi in Europa.
Un incubo lungo oltre due anni
A fine febbraio, quando ormai il peggio sembra alle spalle, e sorvegliavamo ben armati porti e aeroporti, il nemico entra dalla finestra, nel luogo meno prevedibile del mondo: Codogno, provincia di Lodi. È il giovane Mattia, sportivo, dinamico, neo-sposo e futuro padre, a suonare la campana: il Covid è qui, e non è vero che fa male solo agli anziani o ai malati.
E non è vero che bisogna essere stati in Cina per essere a rischio, grave errore di valutazione delle autorità sanitarie che ha sicuramente fatto sfuggire decine di contagiati. Anche Mattia, a cui viene fatto il tampone violando il protocollo (nel suo recentissimo passato partite di calcio e maratone, non viaggi in Oriente) si salva per miracolo, e anche per lui le notizie sulle sue condizioni diventano il paradigma di quello che potrebbe succedere a chiunque. Il malato numero 1, a cui ne sono seguiti ufficialmente 14,6 milioni.
Quasi un italiano su quattro, nel frattempo, ha contratto il virus. A fine febbraio inizia l’incubo delle valli del Bergamasco, dove le persone iniziano ad ammalarsi, a soffocare, a morire in casa, dove mancano le barelle, i medici, le bombole d’ossigeno, dove mogli chiamano invano per ore i numeri di emergenza mentre i mariti boccheggiano, dove, pochi giorni dopo, serviranno i camion dell’esercito per liberare l’obitorio dalle cataste di bare.
La risposta è progressiva, insegue un virus che galoppa (anche perché, oggi lo sappiamo, circolava indisturbato da almeno un mese in Lombardia), scattano le zone rosse a Codogno e Vo’ Euganeo, poi si stringono le maglie su Lombardia e Veneto, l’8 marzo i contagiati da poche decine sono già 4.800, gli ospedali del Nord già al collasso.
È il momento del lockdown, il decreto “Io resto a casa”. Settimane impresse nella memoria di tutti: i canti e gli striscioni, i meme, il proliferare di improbabili corridori e accompagnatori di cani, tra le poche attività consentite fuori di casa. Negozi chiusi, scuole chiuse, ristoranti, locali, tutto.
L’"andrà tutto bene” che riecheggia dai balconi ha vita breve: il lugubre rito pomeridiano della lettura del bollettino in Protezione Civile non dà i risultati sperati, non subito. I casi si impennano, arrivano al picco di 6mila al giorno, e i morti sono cento al giorno, poi trecento, cinquecento, mille. Solo a fine aprile la prima ondata finalmente arretra, la marea cala, lasciando sul terreno 35mila morti, compresi 170 medici, in trincea senza dispositivi di protezione, con turni massacranti.
L'estate del 2020
È quella del “liberi tutti”, dei contagi al Billionaire, del “non ce n’è coviddi” che diventa simbolo di una stagione, breve, di speranza che tutto sia alle spalle. Non è così: in autunno parte la seconda ondata, e i casi si impennano fino a oltre 40mila al giorno. Stavolta però non è tempo di lockdown, si sceglie la via dell’Italia “a colori”: sulla base di una serie di indicatori, le Regioni finiscono in zona gialla, arancione o rossa in base alla situazione epidemica.
Ma non basta: gli stadi sono vuoti, le discoteche restano chiuse, e scatta il coprifuoco alle 22. Anche stavolta, la curva piega, e in primavera le restrizioni si allentano. Nel frattempo, tra il primo e secondo anno di Covid, il contesto è cambiato: a palazzo Chigi c’è Draghi, il Cts, l’organismo tecnico sciolto ieri con la fine dello stato di emergenza che per mesi ha elaborato le risposte alla crisi, anche dolorose, cambia composizione, e soprattutto da fine dicembre arriva il “game changer”, la svolta che può cambiare l’esito della partita: il vaccino.
Il secondo anno è caratterizzato dalla campagna vaccinale, che vede anche qui un cambio della guardia, il generale Figliuolo al posto di Arcuri. Una campagna record, l’80% di italiani protetti, tra le adesioni più alte in Ue.
Con l’inevitabile corollario di polemiche: i no-vax pullulano sui social e finiscono per riversarsi nelle piazze, la scienza non riesce a convincere tutti, anche per colpa di macroscopici errori di comunicazione (basta pensare al calvario subito dal vaccino AstraZeneca).
La terza ondata a marzo 2021, e poi la quarta, quella da cui stiamo faticosamente cercando di uscire, sono fronteggiate con le zone a colori ma anche il green pass, altro elemento divisivo, tra polemiche e scontri di piazza, che nasce con il doppio obiettivo di creare ambienti sicuri per evitare il contagio e incentivare gli indecisi a vaccinarsi.
Il primo obiettivo fallisce con l’arrivo di una variante terribile, Omicron (e poi la “cugina" Omicron 2 che dilaga in queste settimane), molto più contagiosa del virus di Wuhan e anche della successiva variante Delta, anche se fortunatamente meno letale. I numeri parlano chiaro: dall’inizio della pandemia allo scorso dicembre, un anno e dieci mesi, i casi totali in Italia sono 5 milioni. Oggi sono 14,6 milioni: oltre 9 milioni e mezzo di contagi negli ultimi tre mesi.
Il ruolo dei vaccini
Ma l’effetto vaccini si sente: lo scorso anno l’occupazione delle terapie intensive e gli stessi decessi sono superiori, pur con molti meno contagi, di quest’anno. E’ per questo che finisce lo stato di emergenza: dallo straordinario si passa all’ordinario, il virus per la stragrande maggioranza della popolazione dà sintomi influenzali. Si continua a morire, purtroppo, e a finire intubati, ma in proporzione sono soprattutto i no vax ad aggravarsi.
Dei due anni infernali restano il dolore per le troppe vittime, le polemiche furiose su tutto, a partire dalla, vera o presunta, impreparazione del Governo (compreso il caso del piano pandemico che doveva essere aggiornato e che invece all’arrivo del Covid era sepolto in un cassetto), le cantonate mediatiche di virologi, politici, giornalisti, il caos da cui, in definitiva, ognuno ha tratto la sua impressione di cosa è il Covid, e cosa è stata questa stagione.
Nell’eterno Paese dei guelfi e dei ghibellini ora si volta pagina e c’è spazio per altre polemiche, altri dibattiti, magari sulla guerra in Ucraina. Sperando però di fare tesoro degli errori del passato, e ricordare che dopo l’estate arriva sempre l’autunno.