AGI - Basta poco a farle tornare ciò che sono: bambine. Una caduta, ad esempio. Oppure una sconfitta, che per chi non ha mai letto la frase di Rudyard Kipling che introduce al Centrale di Wimbledon (“Possa tu incontrare vittoria e sconfitta a trattare questi due impostori allo stesso modo”) può rivelarsi devastante.
A Pechino Kamila Valieva, la quindicenne russa positiva ad un test antidoping cui è stato concesso comunque di gareggiare per il titolo olimpico anche se non sarebbe stata premiata qualora fosse salita sul podio, dopo il libero finito malissimo (due cadute e mezza, lei che è la vestale dei salti quadrupli) manda tutti al diavolo con un gesto inequivocabile.
E mentre siede aspettando la sentenza che la relegherà al quarto posto piange senza lacrimare, stretta nel gelido abbraccio con la guru Tutberitze.
È ripiegata su se stessa come una bimba appena sgridata dalla maestra. “Perché hai mollato?” così la confortava, si fa per dire, l’allenatrice Tutberidze, tanto da turbare il numero uno del Cio Tomas Bach (“lo stress mentale era evidente, lo sprezzo del suo entourage ancora di più”).
Immagini ed esternazioni che potrebbero accelerare una revisione del regolamento del pattinaggio di figura, alzando a 17 anni l’etù minima per partecipare a una grande competizione internazionale. Perché non si tratta solo di Valieva.
A pochi metri da lei la Trusova, medaglia d’argento, strepita e piange a dirotto presumibilmente per l’oro mancato, con il mascara che le cola sul volto, si nasconde dietro un paravento, inveisce e sbatte i piedi ancora impattinati a terra.
Piange a dirotto pure la giapponese Kaori Sakamoto, terza, sulla spalla di un membro del suo team e il suo è un pianto diverso, di chi si è liberata da un incubo, ma non per questo meno drammatico. Non piange la medaglia d’oro, Alexandra Scherbakova, ma manco ride; e il podio evidenzia in modo impietoso il suo corpo di bambina perpetrato nel tempo.
Tutto si rivela uno psicodramma, del resto in linea con uno sport che gioca con i corpi di ragazzine che vengono private (inutile girarci intorno) di una fase fondamentale della loro crescita.
Aveva pianto anche Carolina Kostner, ai Giochi di Vancouver. Arrivata ai Giochi dopo una preparazione di anni in cui il Coni aveva puntato fortissimo su di lei e sulle sue possibilità di successo. Quello stesso Coni che quattro anni prima, a Torino, aveva caricato sulle sue spalle di sedicenne il ruolo di portabandiera.
Il suo libero fu una via crucis, esattamente quanto quello della Valieva. Una caduta dopo l’altra, un sesto posto finale che pareva l’atto finale di una carriera piena ma mai assurta alla nobiltà di una medaglia olimpica.
Ma Carolina non era sola, nei quattro anni che seguirono dovette attraversare la bufera doping del suo fidanzato Schwazer e la separazione da lui. Ma crebbe non solo come artista delle trottole del ghiaccio, si strutturò anche come donna. Fino a non odiare il pattinaggio, a vincere il bronzo a Sochi e a essere tuttora ambasciatrice globale di questo sport.
Non era così scontato: se la sublime Katarina Witt ha capitalizzato la sua arte con esibizioni e cinema, la divina Yuna Kim (oro a Vancouver) si è dedicata al management e all’advertising e i pattini ai piedi li calza in pubblico il meno possibile.
Ma le bimbe piangenti di Pechino avranno tempo e modo di recuperare la crescita perduta? Le stelle dei Giochi di Pyeonchang 2018, Medvedeva e Zagitova (create e seguite sempre dalla Tutberitze) a Pechino non ci sono arrivate.
La Valieva potrebbe provare a conquistare un’altra Olimpiade (a Milano-Cortina avrà 19 anni) ma sarà dura lasciarsi alle spalle orsacchiotti, lacrime e approfondire fino a renderla costruttiva, la conoscenza della sconfitta. Chieda a Carolina. Lei potrebbe spiegarle come si fa.