AGI “Faccio questo lavoro da 30 anni ma mi sono rotto le scatole, sto pensando di lasciare. Nei pronto soccorso di Milano siamo nel delirio più assoluto”. Il direttore del reparto di emergenza ci accoglie in un ospedale privato della città nell’area Covid che, in questo momento, si presenta vuota, senza posti letto occupati.
“Il problema principale adesso non sono i pazienti che hanno preso il virus, ma è la ‘normalità’ che ci sta massacrando. Sembra di stare nei momenti peggiori del Covid ma è ancora peggio” chiarisce il medico che preferisce l’anonimato, come ormai tutti gli operatori sanitari interpellati dai media in Lombardia che riferiscono di essere stati redarguiti dalla Regione Lombardia o dalle azienda ospedaliere quando ci hanno messo la faccia per denunciare le lacune del sistema.
"Pazienti in attesa per giorni su una barella"
Il direttore entra ogni mattina al lavoro alle 6 e 30 e difficilmente ne esce prima delle 19, negli ultimi due anni racconta di avere fatto due settimane di ferie.
Il punto, dice, non è tanto la fatica personale, ma “l’amarezza di vedere una situazione ormai disperata con pazienti che aspettano anche per dei giorni su una barella nei momenti di massimo afflusso, com’è accaduto a ottobre con l’arrivo dei primi mali di stagione”.
“In questo momento c’è un enorme squilibrio tra la richiesta di assistenza ai pronto soccorso e l’offerta che possiamo dare, siamo sotto organico di una cinquantina di medici e abbiamo perso una decina di infermieri, negli ultimi tre mesi, alcuni a causa del burn out per i turni estremi durante la pandemia”. L’origine della crisi è la “palude” alla base delle cure di prima emergenza rappresentata “dai medici di base che, così come sono ora, non servono quasi a nulla. "La maggior parte di loro non visita i malati, li sbatte al pronto soccorso solo sulla base dei sintomi elencati al telefono e, del resto, nessuno si preoccupa di disincentivare gli accessi da noi perché altrimenti chi le visita queste persone?”.
"Sberle e pugni agli infermieri"
Mancano i posti letto perché tanti sono occupati da persone molto anziane o con patologie croniche “che potrebbero essere assistite a domicilio o nelle strutture per i sub acuti che però ormai in molti casi sono state riconvertite per i degenti post Covid”. In questo contesto, l’aria è livida. “Il clima di tensione coi pazienti è costante. Negli ultimi tempi un’infermiera è stata presa a sberle, un infermiere si è preso un pugno in faccia, insulti e minacce per noi sono all’ordine del giorno”. Entra in reparto un infermiere di 26 anni "innamorato di questo lavoro": “Ci sono giorni che per la tensione torno a casa con le gambe che mi tremano, pieno di rabbia e di fatica. Si lavora male, siamo in tre infermieri qui per oltre trenta persone nei momenti di massimo afflusso. Il rischio è per noi e per i pazienti, con la fatica anche di gestire i no vax che vorrebbero entrare senza mascherina”.
Anche nel pubblico situazione di assedio
Una dottoressa di 40 anni che lavora nel pronto soccorso di un ospedale pubblico cittadino riporta un contesto molto simile. “Dopo la seconda ondata è peggiorata la situazione perché prima i colleghi delle altre specialità, quelli che seguivano la ‘linea pulita’ dei pazienti non Covid, ci davano una mano, mentre ora sono tornati alle loro attività. Da due anni lavoro sempre, ho un arretrato di ferie di 56 giorni. Le mei giornate sono di 12 ore. La lucidità? A me non è mai successo di perderla ma il rischio è concreto, siamo al limite con la richiesta di un enorme sacrificio personale e professionale”.
Conferma che le persone vengono al pronto soccorso anche quando non serve ma le giustifica: “Penso ai miei genitori anziani. Se vogliono fare una gastroscopia, devono andare dal medico di base con appuntamento, farsela prescrivere da uno specialista e poi, dopo sei mesi, gli viene fissata. Conviene presentarsi qui e riferire di un malessere”. Quest’anno, sottolinea, “il bando per 356 borse di studio messe a disposizione dal Ministero per l’Università e la Ricerca, è andato deserto”. “Normale che nemmeno i medici di altri Paesi ne siano attratti perché non è allettante dal punto di vista economico e della qualità del lavoro. Facciamo un confronto tra un giovane medico dell’urgenza e un coetaneo dermatologo che può lavorare dalle 9 alle 14, esercitare nelle ore successive la libera professione, a noi preclusa, e andare in palestra. Sono reduce da una notte finita alle 8 di stamattina, oggi mi riposo e domani riattacco alle 5 e 30 del mattino”.
Negli ultimi mesi ha contato 17 domande di trasferimento su 60 infermieri, tanti in burn out. "Numeri mai visti”.
Qual è il limite dell'irreparabile? “Il limite lo stiamo già toccando. Le postazioni periferiche di emergenza sono state chiuse. Nella mia azienda 4 presidi, due di pronto soccorso e due di prima emergenza, non ci sono più. I tempi di attesa aumentano e spesso ci aggrediscono dicendo che ci pagano lo stipendio e hanno diritto a pretendere di più”.
Il soccoritore, ho lasciato la barella e me ne sono andato
“Facciano attese incredibili, nei giorni scorsi a un certo punto ho lasciato lì la barella e me ne sono andato. Mi davano 4 ore di attesa per la mia barella in un pronto soccorso privato. Io non posso stare lì tutto quel tempo perché non hanno la lettiga – è la testimonianza di uno di loro, Francesco Nucera, autore del libro 'Cambio vita: vado a fare il soccoritore'-. Due giorni fa il 118 non sapeva dove inviarmi perché gli ospedali erano tutti pieni ed era l’una del pomeriggio di un giorno infrasettimanale. E’ tutto il movimento che ha crashato. Mancano i medici di base, la guardia medica è stata ridotta al lumicino. In più tanti infermieri esperti se ne sono andati perché non hanno avuto riconoscimenti per il Covid e sono stati sostituiti da giovani volenterosi ma ancora non pronti per affrontare una situazione così complicata”.