AGI - Il 23 novembre di trent’anni fa Freddie Mercury comunicava al mondo tramite una nota stampa di aver contratto l’Aids: “E' arrivato il momento che i miei amici e i miei fan in tutto il mondo conoscano la verità e spero che tutti si uniranno a me, ai dottori che mi seguono e a quelli del mondo intero nella lotta contro questa terribile malattia”. Un segreto di Pulcinella, impossibile che una superstar del calibro di Mercury riuscisse per troppo tempo a nascondere i segni evidenti di quel lento decadimento, specie con la stampa inglese, famosa per non mollare l’osso una volta addentato, e quello del cantante dei Queen era già stato ampiamente consumato sulle copertine di tutti i tabloid.
Il giorno prima, un classico nelle storie di questo tipo, specie quando vengono raccontate al cinema, e in pochi nella storia del rock, che è una storia costellata dalle leggende, hanno avuto una vita più cinematograficamente valida di quella di Freddie Mercury; non è un caso allora pensandoci bene se poi Rami Malek nel 2018, vince l’Oscar per averlo interpretato sul grande schermo, in maniera del tutto ineccepibile, unico punto ineccepibile di quel film tra l’altro, ci riferiamo a “Bohemian Rhapsody” naturalmente, pellicola telecomandata verso una trama che in qualche modo esaltasse gli altri tre Queen senza impedire che la regina Mercury, come sempre, ogni singola volta che un riflettore gli veniva puntato addosso, catturasse scena e attenzione di tutti, senza che quel magnetismo animale, imprevedibile, dalla bellezza quasi disturbante, ingoiasse ogni minuscolo spicchio di tempo e di circostanza.
Quel 23 novembre non c’era alcuna lotta da combattere, è evidente che Freddie lo sapesse bene, anzi, da qualche giorno Mercury si era addirittura arreso all’inevitabile, aveva smesso di prendere i farmaci per curarsi, dedicandosi solo a quelli che gli avrebbero reso meno dolorosi quegli ultimi metri di esistenza. Così il giorno dopo, il 24 novembre, alle 18:48, nella sua casa di Logan Place, se ne andò, stroncato da una broncopolmonite a soli 45 anni; accerchiato dai suoi affetti, quelli ai quali si ritorna sempre nel momento in cui nemmeno le fatiscenze del rock possono concedere la giusta carezza: i genitori, la sorella Kashmira, il compagno Jim Hutton e Mary Austin, l’amore della sua vita, l’unica persona capace di riportare il re Freddie Mercury alla realtà.
Quel 24 novembre la sensazione comune è che quella orrenda malattia, cui spietatezza era accelerata ai tempi dal cinismo di chi la raccontava come punizione divina per gli omosessuali, avesse negato al mondo tutta un’intera fase della carriera di una delle stelle più luminose della musica mondiale. La morte è un accadimento triste per tutti, è chiaro, i soldi, la fama, il talento, non rendono una morte più deprimente di un’altra, ma l’Aids non ha solo negato a Freddie Mercury tutto ciò che la vita regala dai 45 anni in poi, ma anche al suo pubblico, alla storia della musica, tutto ciò che dai 45 anni in poi un artista eccezionale come Freddie Mercury avrebbe potuto regalare al suo pubblico e alla storia della musica.
Quella di Farrokh Bulsara, così all’anagrafe, è una storia molto particolare e che arriva da lontano, da una regione dell'India occidentale chiamata Gujarat, da dove proviene la famiglia del frontman dei Queen, e che prosegue a Zanzibar, all'epoca protettorato britannico, dove il padre Bomi Rustomji, cassiere della segreteria di Stato per le Colonie viene trasferito. Sono in molti ad aver contestato il nome, Freddie Mercury, scelto da Bulsara per la sua carriera, come se si vergognasse delle proprie origini, ma in realtà è proprio al St. Peter's Boys School, un collegio britannico a Panchgani, 380 km a sud di Bombay, che quel Farrokh, spesso declinato in Frederick, diventa semplicemente Freddie; e quel Freddie, su suggerimento del preside della scuola, in quel periodo si avvicinò alla musica, formando perfino la sua prima band insieme a Bruce Murray, Farang Irani, Victory Rana e a Derrick Branche, che riuscirà a costruirsi una discreta ma prescindibile carriera come attore. Suonano pezzi di Cliff Richard e Little Richard alle feste della scuola e si fanno chiamare The Hectics, che tradotto viene fuori “I Frenetici”, nome magari non illuminante, ok (ma chi avrebbe scommesso su “Gli scarafaggi”?), ma che rappresenta comunque il primissimo vagito di quella che si rivelerà essere una delle storie più avvincenti, spericolate ed entusiasmanti della storia della musica.
Dalle origini al successo
Nel 1964 i Bulsara, a causa della rivoluzione di Zanzibar, si trasferiscono nel Regno Unito, per la precisione a Feltham, nel Middlesex, nei pressi dell'aeroporto di Heathrow, dove tra l’altro il giovane Frederick lavorerà per un periodo, nella periferia sud-ovest di Londra. Qui Freddie prosegue con successo gli studi artistici fino al college dove conosce Tim Staffell, ai tempi voce degli Smile, un complesso che nella formazione tipo contava Brian May alle chitarre e Roger Taylor alla batteria.
Freddie chiede spesso all’amico Tim di potersi rendere utile alla causa, anche solo come seconda voce, ma sempre invano. Nel frattempo invece ci sono gli Ibex di Liverpool che gli fanno una corte spietata ed è con loro che salirà sul palco la prima volta ed è lì che nasce Freddie Mercury. Sul palco è disarmante, perfino i membri della sua band sono straniti da quell’eccesso; il progetto non fruttò niente di significativo, ma anche quando cambiarono nome in Wreckage l’unica cosa che lasciarono in eredità sono i testi antenati di tre brani che saranno poi dei Queen: “Seven Seas of Rhye”, “Stone Cold Crazy” e “Liar”.
La svolta arriva il 29 marzo 1970, quando Tim Staffel decide di abbandonare gli Smile dopo che la loro “Earth/Step On Me” non frutta come lui si aspettava; così Mercury convince May e Taylor a formare i Queen, un nome che aveva immaginato molti anni prima, che effettivamente decodifica in maniera straordinariamente specifica, all’istante, essenza e grandezza della band che sarà: “È soltanto un nome – racconterà Mercury - ma è molto regale e ha un suono splendido. È un nome forte, molto universale e immediato. Aveva un grande potenziale visivo ed era aperto a ogni tipo di interpretazione. Ero certamente consapevole delle sue implicazioni omosessuali, ma quello era solo uno dei suoi aspetti”.
Freddie Mercury ha le idee chiare per quel progetto: ingaggia al basso John Deacon, organizza un tour nei locali della Cornovaglia per affinare quella presenza scenica che, ha già capito perfettamente, sarà marchio di fabbrica del proprio fare musica, e disegna di suo pugno lo splendido emblema della band, il cosiddetto “Queen Crest”. Sarà che siamo all’inizio degli anni ’70, uno dei periodi più fecondi della storia del rock, e che ci troviamo a Londra, ormai diventato ombelico di quel mondo, ma gli album dei Queen sono immediatamente apprezzati all’unanimità da pubblico e critica. La celebrazione definitiva arriva con “Bohemian Rhapsody”, forse proprio perché la più rappresentativa dell’idea lucidamente eccentrica che Mercury aveva della musica e, molto probabilmente, della vita; tant’è che nessuno, nemmeno il resto della band, capì mai esattamente cosa volesse significare quel testo, che alcuni considerano il primo vero outing dell’artista, ai tempi ancora ufficialmente impegnato con Mary Austin.
È nota la storia, anche se esageratamente montata nell’omonimo film, riguardante i dubbi del produttore della Emi Ray Foster sullo spingere quel brano dal testo ermetico e una durata spropositata (quasi 6 minuti) come singolo di lancio del nuovo disco dei Queen, lui avrebbe preferito un pezzo più accessibile come “I'm in Love with my Car”, che si metteva un po' di più sulla scia dei Queen che si stavano divorando il mercato discografico anglosassone; normale amministrazione insomma quando di mestiere fai il produttore di una qualsiasi etichetta in una qualsiasi parte del mondo. Vero è invece che Mercury, perfettamente consapevole del capolavoro partorito, si impuntò e vinse quella battaglia, contro la proprie etichetta, si, ma anche contro il proprio stesso pubblico, che decise quasi di ammaestrare organizzando con l’amico Dj Kenny Everett una sorta di maratona radiofonica durante la quale il brano venne passato e ripassato per giorni, finché anche il pubblico più ostinatamente commerciale non si convinse, non solo che “Bohemian Rhapsody” era il capolavoro che ancora oggi ammettiamo che sia, ma soprattutto che quella era la massima espressione musicale possibile dei Queen.
È evidente che è in quel momento che la storia dei Queen svolta verso la leggenda, come se la fenice che domina il logo della band, forse non a caso per la prima volta copertina di un loro disco, spiegasse le ali, si mostrasse in tutta la propria definitiva maestosità. Ed è proprio in questo momento storico che i Queen si rivelano per quello che sono e anche il rapporto tra Freddie Mercury e Mary Austin per quello che è, non una storia d’amore, non di quelle convenzionali perlomeno. Il problema non sono le inclinazioni sessuali di Freddie Mercury ma più probabilmente l’impossibilità di Mary Austin, così come degli amici della band, degli assistenti personali, degli amanti, di gestire un equilibrio che forse apparteneva al giovane Farrokh, ma non a Freddie. Così la loro relazione finisce ma non il loro amore, Freddie lascia l’appartamento di Victoria Road dove vivevano insieme per trasferirsi al 12 di Stafford Terrace, ma regalando a Mary Austin la casa accanto alla sua, in modo tale che potessero guardarsi ogni sera dalla finestra.
A quel punto è come se Mercury, ormai star indiscussa del music business, si fosse liberato da catene che lo tenevano legato ad una vita che non era la sua e tutto divenne un’esagerazione meravigliosamente stralunata. Questo ebbe naturalmente delle conseguenze sul fare musica della band, da un lato positive, se si può discutere sul fatto che si sia ascoltata musica migliore, ma servirebbe eventualmente attrezzarsi come si deve per portare avanti una simile teoria, non si può fare lo stesso sulla presenza scenica dei Queen che offrono show assolutamente ineguagliabili. Freddie porta sul palco la propria carnalità, la trasforma in elemento di scena, i loro concerti sono una festa, un tripudio di colori sempre smaccatamente sul filo dell’allusione sessuale, con il rock a fare da stella cometa verso un universo che per qualche ora diventava luogo di celebrazione della vita e dell’eccesso dalle vibrazioni quasi liturgiche; un luogo che aveva in Freddie Mercury il proprio pastore e nella totale libertà di espressione la propria incontrovertibile parola sacra.
Gli anni '80
Gli anni ’80 sono quelli del successo globale, ma sono anche probabilmente i più complessi per la band, specie i primi. La loro musica, perlomeno nella percezione del pubblico, subisce una lieve flessione, cosa inevitabile quando si tocca il punto più alto; Freddie Mercury è legato alla propria band ma allo stesso tempo, proprio perché, come già detto, il suo estro condiziona non solo la sua musica ma anche il suo modo di vivere, è anche un personaggio ingestibile, comincia a girovagare finendo prima a Monaco e poi a New York, è il re della notte, la sua casa un party che sembra non finire mai, un circo stabile aperto a chiunque abbia desiderio o necessità di eccessi di ogni tipo. Inutile dire che le leggende riguardanti le serate di Freddie Mercury sono numerose, i nani che servivano alle sue feste, quella volta che riuscì a portare la sua grande amica Lady Diana al Royal Vauxhall Tavern, uno dei club gay più famosi di Londra, facendola travestire da uomo, o quando dopo una sbronza formò una band con Elton John e Rod Stewart, salvo poi tutti e tre rinunciare al progetto una volta sobri il giorno dopo.
I Queen si prendono dunque una pausa, ognuno si impegna nel proprio progetto solista; il primo a lavorare in parallelo, a differenza di come viene raccontato nel film “Bohemian Rhapsody”, fu Roger Taylor, il che, come si evince, rende tutto quel capitolo della pellicola di Bryan Singer in cui Freddie Mercury viene trattato come un traditore, falso nonché fuorviante riguardo la storia sua e della band. Solo oggi forse si può ammettere candidamente che il disco solista di Freddie Mercury, “Mr. Bad Guy”, non è quell’oscenità che gli valse addirittura il Razzie Award come peggior canzone dell’anno, inutile sottolineare però come effettivamente Freddie Mercury senza il sostegno della propria band si trovava spaesato, armato solo della propria voce, che May, Taylor e Deacon gli permettevano di mettere in musica quella visione grandiosa, definitiva, alla quale Freddie poteva solo dare la voce. Il quasi totale anonimato dei progetti solisti di Taylor e May spinsero così la band a riunirsi e a dare il via a quella che si rivelerà essere l’ultima meravigliosa cavalcata musicale della loro carriera.
Esce infatti “The Works”, seguito da un tour mondiale che si concluderà, dopo oltre un anno in giro per il mondo al Live Aid di Bob Gendolf, probabilmente il più importante evento musicale dai tempi di Woodstock. Anche qui a chi ha visto, e magari anche amato, il film “Bohemian Rhapsody” alcuni passaggi della cronologia non torneranno, per cui è necessario chiarire che no, i Queen non si sono riuniti in occasione del Live Aid, in quel momento, anzi, provenivano da due anni estremamente positivi, e se la loro partecipazione al gigantesco evento di beneficienza era in dubbio non fu certo per le loro diatribe interne, ma perché a Gendolf non andò giù il fatto che i Queen furono gli unici tra le stelle più luminose della costellazione rock di allora ad andare a suonare a Sun City, città sudafricana considerata il simbolo dell'apartheid. Alla fine Gendolf si convinse, o almeno fu costretto a convincersi proprio in virtù del fatto che un evento musicale di quella portata non sarebbe stato lo stesso senza i Queen; e menomale, dato che quell’esibizione si rivelò essere certamente tra le più entusiasmanti dell’intera storia della musica.
Freddie Mercury oscurò letteralmente chiunque quel giorno abbia preso uno strumento in mano, più che un mini live fu una vera e propria incoronazione, alla fine di quei venti minuti i Queen sono definitivamente nella storia, Freddie Mercury un pifferaio magico capace di incantare l’attenzione di milioni e milioni di spettatori con una scioltezza ed un’intensità che si riveleranno assolutamente irripetibili. Freddie Mercury scopre solo un anno dopo di avere l’Aids, preoccupato da una serie di problemi di salute, così probabilmente conscio dell’instabilità della propria vita sessuale, si decide ad effettuare degli esami sierologici in una clinica di Harley Street e i risultati sono quelli che sappiamo. Tiene il riserbo con tutti, la band verrà a conoscenza del male che ha attaccato il loro frontman solo nel 1989, solo quando non può più nasconderlo.
Quell’anno la cantante lirica Montserrat Caballé gli chiede un duetto, lui risponde “Non si può dire di no ad una star”, ed è così che viene fuori “Barcelona”, certamente il più importante tra i suoi progetti solisti, non soltanto perché il brano andò bene in termini di vendite, ma soprattutto perché Mercury, che a metà pezzo tocca a piena voce un re della quarta ottava, unisce per la prima volta due mondi apparentemente distanti, dando al rock una dignità tale da poter stare sullo stesso palco con quella che fu una delle più intense voci della storia della lirica. La voce di Freddie Mercury verrà studiata nelle università, si stabilirà con precisione scientifica la potenza degna, appunto, della preparazione tipica dei cantanti classici, si studierà l’effetto dei quattro molari in più che riempivano la sua bocca, una malformazione che si rifiutò sempre di sistemare per paura incidesse proprio sulle sue performance; si fece di tutto insomma per provare a capire come fosse possibile ascoltare una tale miscela di talento e tecnica che si rivelerà unica nella storia del rock.
“Barcelona” fu scelta anche come inno ufficiale dei Giochi della XXV Olimpiade, all’inaugurazione però la Caballè dovette cantare da sola, accompagnata da un video, perché Freddie già non c’era più; riuscirono a ingannare il tempo ed esibirsi insieme solo due volte, la prima al Ku Club di Ibiza, dove decisero di presentare il brano, la seconda al La Nit Festival, nell'ottobre del 1988, davanti al Re e alla Regina di Spagna, e fu l’ultima volta che Freddie Mercury cantò dal vivo. Da quel momento in poi fu sempre più difficile per il frontman dei Queen sia lavorare che tenere a bada le voci sulla propria malattia, inevitabilmente uscite fuori. D’altra parte non poteva essere altrimenti, i Queen non suonavano più dal vivo e già questo era un indizio, le apparizioni pubbliche di Freddie si fecero molto più rare e a molti non sfuggì il visibile deperimento dell’artista; inoltre inutile dire che i numerosi amanti frequentatori di Garden Lodge furono ingolositi dalla possibilità, che non si fecero di certo scappare, di raccontare tutto ciò che fecero e videro in quella casa. Di lì in poi ai famigerati tabloid inglesi bastò fare due più due. La band in quel periodo si strinse forte attorno al suo leader, tentarono anche di smentire ufficialmente quelle voci ma sapevano che nessuno gli avrebbe creduto, Freddie nella primavera del ‘91 decise addirittura di spostarsi a Montreux dove affittò un'abitazione in riva al lago che chiamò Duck House. Il 30 maggio del 1991 però decide di salutare i propri fans, l’occasione sono le riprese del video di “These Are the Days of Our Lives”, altro capolavoro dei Queen inserito nel disco “Innuendo”.
Nel video Freddie Mercury è visibilmente sfiorito, nemmeno il bianco e nero riesce a filtrare le condizioni del cantante, che in realtà desiderava non nascondersi più, non celare più il dolore non solo fisico, nel video infatti si muove come e quanto può, ma anche quello interiore, l’incapacità di non poter più essere Freddie Mercury, che era lui si, ma anche ciò che aveva sempre sognato di essere, la materializzazione allo specchio del proprio personale sogno; la volontà di urlare per l’ultima volta l’inscindibile unione tra persona e personaggio, e quanto potesse essere frustrante rendersi conto che la malattia che l’aveva colpito aveva ridotto Freddie nuovamente a Farrokh, una persona semplice, fallibile, umana, che invece era tutto ciò che aveva lavorato e sofferto per non essere mai più. “I Stille Love You”, con queste parole alla fine del video, leggermente sussurrate, come se fossero un post scriptum del tutto personale, Freddie Mercury, guardando fisso in camera ed accennando un amaro sorriso, saluta il proprio pubblico, abbandona per sempre le scene. Non si sa dove riposino le ceneri di Freddie Mercury, prima di morire rivelò esclusivamente a Mary Austin dove desiderava riposare per l’eternità, lei conservò la sua urna per due anni in camera da letto, poi montò una scusa inattaccabile, un intervento al viso, per potersi allontanare senza destare sospetti, e accontentò per l’ultima volta il suo Freddie.