AGI - Quello che salta subito all’occhio sono le tracce di sangue. Macchiano le pareti, gli stipiti delle porte, i libri gettati per terra, il marmo che lastrica l’ingresso della sede nazionale della Cgil. Si allungano sui corridoi, sembrano tracciare un percorso: quello dell’assalto al principale sindacato italiano compiuto ieri pomeriggio da gruppi neofascisti.
“La polizia ha detto che probabilmente nella furia si sono fatti male coi vetri o con le schegge di legno. Questo è il mio ufficio, il sangue è ovunque”, racconta un dipendente. La sua scrivania è una delle prime in una stanza subito a destra dopo l’ingresso in serpentino. Per terra, tra le gocce di sangue coagulato, libri, macchine fotocopiatrici sfondate dai calci, vetri rotti che ancora si sentono sotto i piedi mentre si attraversa l’ingresso del palazzo di Corso d’Italia.
A sinistra, sopra una cumulo di insegne rotte gettate per terra, un quadro sfondato. È del 1973 e l’autore, il pittore romano Ennio Calabria, lo ha donato al sindacato. Rappresenta un gruppo di lavoratori che reggono dietro un enorme paracadute rosso. Ora al centro del quadro c’è un buco, uno sfregio sulla tela bianca.
Su quel buco si posa anche lo sguardo di Maurizio Landini, segretario generale del sindacato, che poi affida un commento all’AGI: “Le devastazioni qui dentro sono frutto di un assalto fascista, non c’entra nulla il green pass. Questo è un assalto premeditato da gruppi neofascisti. Siamo contenti del sostegno di tutte le forze politiche, compreso quello di Fratelli d’Italia. Ora mi aspetto che tutti votino una legge per sciogliere tutte le organizzazioni fasciste”, ribadendo la proposta lanciata poco prima dalle scale della sede di Corso d’Italia, dove si sono radunati alle 10 del mattino un migliaio di iscritti al sindacato, studenti e semplici cittadini.
Un anziano sindacalista, con una bandana della Cgil stretta al collo, resta con lo sguardo incollato alla cicatrice sul quadro di Calabria. Sembra conoscerlo da decenni. “Non è possibile, non è possibile”, si ripete. Poco più avanti, sul corridoio principale, i quadri di Renato Guttuso, protetti, piazzati più in alto, forse solo per questo risparmiati dalla devastazione. Dietro, il centralino della Cgil continua a squillare. “La ringrazio a nome di tutto il sindacato, grazie”, rispondono le centraliniste. Sono tutte chiamate di sostegno.
Alle spalle dei telefoni c’è la finestra sfondata ieri dai militanti di estrema destra, diventata icona dell’assalto. È da lì che sono entrati. Un uomo si rivolge a un operatore con la telecamera e indica la tapparella rotta: “Riprendi quello, riprendi quello. È quello il simbolo della loro violenza”.
Sotto la finestra del centralino è tutto devastato. Computer rotti, cavi strappati, monitor per terra tirati via dai muri. Sopra un cumulo di calcinacci, vetri e plastica, è rimasta intatta una foto del padre del sindacato italiano, Giuseppe Di Vittorio. Sembra incredibile che sia rimasta lì, senza alcun graffio, senza segni della violenza alla quale ha assistito. Lo sguardo del sindacalista sembra posarsi da lì fiero sulle devastazioni degli uffici. Come un invito, quasi un monito, a non piegare la testa e guardare avanti.