AGI - Se è vero che, in questo secolo, le guerre combattute con le armi si sono dimezzate, è vero anche che le rivalità tra Stati adesso si gestiscono attraverso la cultura, un softpower che, oltre a esercitare un’influenza politica, si rivela anche un utile strumento di dominazione da parte del capitale.
È l’opinione di Antoine Pecqueur, giornalista specializzato in economia della cultura che ha costruito una mappatura del softpower nel mondo e dei rapporti di forza che crea o distrugge. Si chiama Atlante della cultura (Add Editore) e presentato sabato a Internazionale a Ferrara, il festival di giornalismo promosso dalla rivista di Giovanni De Mauro.
Il libro di Pecqueur muove i propri passi dall’apparente dicotomia tra ciò che la cultura dovrebbe essere, un elemento identitario, e ciò che nei fatti è: uno strumento di potere che trasmette ideologie. Il fascismo e il nazismo lo avevano capito e l’hanno utilizzato per la loro propaganda nazionalista e razzista.
“Il termine soft power è stato coniato solo di recente, negli anni '90, dal politologo statunitense Joseph Nye, ma la diplomazia culturale esiste da secoli. Basti pensare a Luigi XIV in Francia, grande appassionato d’arte, o al ruolo di Giuseppe Verdi e della sua musica nel Risorgimento italiano. Da qualche anno però si assiste a una forte accelerazione, è un fatto incontestabile”.
Il covid, ovviamente ha fatto la sua parte: “la cultura - spiega il giornalista francese - è stato uno dei settori più toccati dalla pandemia, come il trasporto aereo. In questo periodo ci siamo resi conto della fragilità di alcune professioni, per esempio quelle degli artisti e musicisti, anche se le condizioni variano da un Paese all’altro. In Francia chi lavora nello spettacolo gode di qualche forma di protezione, in Italia no. La crisi sanitaria, d’altro canto, ha portato grandi benefici ai giganti della tecnologia: il consumo di cultura su schermo è aumentato in modo clamoroso, e ormai dobbiamo valutare se queste nuove abitudini saranno temporanee o se innescheranno una tendenza più profonda, che potrebbe indebolire l’economia dei cinema e delle sale da spettacolo tradizionali”.
Pecqueur, nelle sue 144 pagine colme di schemi, mappe e diagrammi alza il velo sugli ingranaggi che mettono il soft power al centro di questi nuovi rapporti di forza: “ciascun Paese ha le proprie specificità, per ragioni storico-culturali e anche geopolitiche. La Nigeria scommette sul cinema con Nollywood, la Corea del Sud sulla musica con il Kpop, l’India sullo yoga, le petromonarchie arabe su l’arte e archistar. Va detto che la musica occupa spesso un ruolo preminente, perché è lo strumento di trasmissione più immediato”. Secondo Pecqueur è stato proprio il Kpop a permettere alla Corea del Sud di rilanciare l propria economia.
“Bisognava rispolverare la capacità attrattiva e il Kpop è diventato un brand mondiale: i BTS, la boyband coreana nota in tutto il mondo, sono stati invitati persino alle Nazioni Unite. Ma qual è il prezzo? I ragazzi del Kpop crescono nella sofferenza, e ci sono numerosi casi di suicidio tra loro”. Una cosa simile succede in India con la “la politica dello Yoga”, “i governo di Narendra Modi sta attuando una politica nazionalista induista con l’obiettivo di mettere all’angolo la minoranza musulmana. In questo contesto Modi ha fatto di tutto per dare risalto allo yoga, istituendo un ministero dedicato e ottenendo il riconoscimento dell’Unesco. Da pratica di benessere è diventato un’arma anti-musulmana”.
Un nuova lettura del mondo che consente anche di individuare le possibili polveriere: “dal ritorno dei talebani in Afghanistan che può modificare in profondità lo sviluppo culturale che il Paese ha conosciuto negli ultimi vent’anni, al Nagorno-Karabakh dove il conflitto tra armeni e azeri è anche un conflitto culturale. E che dire del ruolo della Brexit in ambito culturale? Bisogna tenere alta la guardia”. L'Europa non è immune. Per Pecqueur “nell’Unione Europea la cultura è una competenza d’appoggio, non una competenza condivisa, come lo sono per esempio l’agricoltura o i trasporti. La cultura resta quindi appannaggio degli Stati membri, e l’Europa interviene solo in maniera complementare”.
Troppo poco per contrastare lo strapotere dei colossi dell'immaginario collettivo come Usa e Cina. “A mio avviso la risposta culturale deve essere europea. In fondo, il ruolo dell’Europa nella direttiva sul diritto d’autore è stato benefico. Ma bisogna andare oltre. L’Europa deve vigilare anche sulla politica culturale di propaganda di alcuni Stati membri, come l’Ungheria di Viktor Orban dove gli stanziamenti per la cultura crescono; e in questo caso non è un bene”. Le politiche culturali, insomma, possono dividere i popoli e escludere minoranze tanto quanto possono unire e essere inclusive.