AGI - Delle violenze accadute a Rimini nella notte tra il 25 e il 26 agosto del 2017 si parlò in tutta Europa: la capitale delle vacanze italiane finì alla ribalta delle cronache continentali per quelli che sono stati definiti i terribili ‘stupri di Miramare’ in cui una donna e una transessuale furono violentate a turno da una banda composta da quattro giovanissimi di cui solo uno maggiorenne. Una notte di violenze inaudite con il branco in cerca di prede nell’ultimo quartiere a sud di Rimini.
Fu così che i quattro, il 20enne congolese Guerlin Butungu, due fratelli marocchini e un senegalese tutti minorenni, incrociarono i loro sguardi su una giovane coppia polacca in vacanza in Romagna: il ragazzo fu massacrato di botte - tanto da subire il distacco della retina - e minacciato coi coltelli mentre la ragazza veniva stuprata a turno dal quartetto dopo essere stata trascinata sulla spiaggia.
Non sazia, pochi minuti dopo la banda prese di mira una transessuale peruviana incrociata mentre risaliva dalla spiaggia verso la strada statale, nei pressi della discoteca Altromondo Studios.
Violentarono anche lei, a turno.
Le ricerche delle forze dell’ordine iniziarono immediatamente ma se il buio della spiaggia non aveva permesso alla coppia di carpire i volti dei delinquenti, fu la transessuale a descriverli alle autorità.
La sua testimonianza si rivelerà poi decisiva nei processi.
Per giorni tutti rimasero col fiato sospeso. Da chi era composta questa banda di aguzzini? E perché tanta violenza? Fondamentale nelle indagini fu anche un filmato in cui si vedeva chiaramente il branco dirigersi a passi sveglti verso la preda.
Dopo che la stampa pubblicò i primi frame di quella traccia video, i due fratelli marocchini di 15 e 17 anni decisero di costituirsi ai carabinieri della stazione di Vallefoglia, nel Pesarese. Fu dunque la svolta, che permise di individuare il giovane nigeriano residente a Pesaro e fermato nei pressi della stazione ferroviaria e soprattutto quello che è stato poi indicato come il capobranco: il congolese Butungu. Quest’ultimo, un richiedente asilo residente dal 2015 della stessa provincia degli altri, a Cagli, non vantava alle spalle un passato violento ma anzi un’esistenza tranquilla senza aver mai creato problemi di sorta. Gli agenti della polizia di Stato riuscirono a individuarlo mentre tentava di scappare in treno: grazie al monitoraggio delle celle telefoniche fu possibile fermarlo mentre il convoglio diretto a nord era in sosta a Rimini. A mettere le manette ai polsi al giovane straniero sono state due agenti donne: un gesto simbolico con cui la polizia volle in qualche modo rendere giustizia alle vittime del caso.
Butungu dopo aver tentato di negare la sua identità ha prima accusato i suoi giovani compagni di essere gli stupratori per poi ammettere le proprie colpe davanti al pubblico ministero dicendosi anche pentito. Emerse così che la banda aveva già preso di mira altri ignari turisti nei giorni precedenti, come una coppia di Legnano depredata il 12 agosto. I processi si svolsero velocemente e anche il Comune di Rimini si costituì parte civile. Dopo che la Procura aveva inizialmente chiesto 14 anni di carcere per il capobranco, la corte lo hai poi condannato a 16 anni di reclusione, stessa pena confermata in appello e in Cassazione. “L'enorme gravità delle condotte poste in essere, la loro serialità, il ruolo di 'capo' che Butungu ha assunto nella gestione delle violenze sessuali ripetute con modalità che rasentano la ferocia”.
Così i supremi giudici motivarono la decisione di confermare la pena senza attenuanti in aggiunta alla “palese mancanza di qualsivoglia rielaborazione critica” dopo l’arresto e a “una condotta processuale tesa a negare l’evidenza”.