AGI - Le norme vigenti che obbligano il giudice a punire con il carcere il reato di diffamazione a mezzo della stampa o della radiotelevisione, aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato, sono incostituzionali perché contrastano con la libertà di manifestazione del pensiero, riconosciuta tanto dalla Costituzione italiana quanto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La minaccia dell'obbligatoria applicazione del carcere può produrre infatti l’effetto di dissuadere i giornalisti dall’esercizio della loro cruciale funzione di controllo dell’operato dei pubblici poteri. Lo ha deciso la Consulta che però rende noto che, tuttavia, non è di per sé incompatibile con la Costituzione che il giudice applichi la pena del carcere a chi, ad esempio, si sia reso responsabile di “campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, Internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi”.
La sentenza numero 150
“Chi ponga in essere simili condotte – eserciti o meno la professione giornalistica – certo non svolge la funzione di ‘cane da guardia’ della democrazia, che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità ‘scomode’; ma, all’opposto, crea un pericolo per la democrazia”, anche per i possibili effetti distorsivi di tali condotte sulle libere competizioni elettorali. Questi sono alcuni dei passaggi più significativi della sentenza n. 150 depositata il 12 luglio (redattore Francesco Viganò), il cui contenuto era stato anticipato con il comunicato stampa dello scorso 22 giugno.
La Corte si è pronunciata su due questioni sollevate dai Tribunali di Salerno e di Bari, che erano già state trattate nel giugno dello scorso anno. In quell’occasione, il giudice delle leggi aveva deciso, con l’ordinanza n.132 del 2020, di rinviare di un anno la decisione delle due cause, per dar modo al legislatore di approvare nel frattempo una nuova disciplina della materia, in grado di bilanciare meglio il diritto alla libertà di cronaca e di critica dei giornalisti con la tutela della reputazione individuale. Poiché, però, l’auspicata riforma della materia non è stata approvata, la Corte ha ora dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 13 della legge sulla stampa (n.47 del 1948), che prevedeva la necessaria applicazione della reclusione da uno a sei anni per il reato di diffamazione commessa a mezzo della stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato.
La sentenza dichiara illegittimo anche l’articolo 30, comma 4, della legge n. 223 del 1990 sul sistema radiotelevisivo pubblico e privato, che estendeva le sanzioni previste dall’articolo 13 della legge sulla stampa alla diffamazione commessa per mezzo della radio o della televisione.
La Corte ha invece escluso il contrasto con la Costituzione dell’articolo 595, terzo comma, del Codice penale, che prevede, in alternativa fra loro, la pena della reclusione da sei mesi a tre anni ovvero della multa in caso di condanna per diffamazione commessa a mezzo della stampa o di altro mezzo di pubblicità. Nella motivazione viene anzitutto ribadito quanto già sottolineato nell’ordinanza n.132 del 2020: se è vero che il diritto di cronaca e di critica esercitato dai giornalisti “costituisce pietra angolare di ogni ordinamento democratico, non è men vero che la reputazione individuale è del pari un diritto inviolabile, strettamente legato alla dignità della persona”.
I casi di eccezionale gravità
Pertanto, “aggressioni illegittime a tale diritto”, compiute attraverso la stampa, la radio, la televisione, le testate giornalistiche online e i siti internet in generale, i social media e così via, “possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime”. Secondo la Consulta e la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, non è di per sé incompatibile con la libertà di manifestazione del pensiero una norma che consenta al giudice di applicare la pena della reclusione nel caso in cui la diffamazione si caratterizzi per la sua eccezionale gravità, dal punto di vista oggettivo e soggettivo. Perciò l’articolo 595, terzo comma, del Codice penale è stato considerato compatibile con la Costituzione, purché sia interpretato nel senso che la reclusione può essere applicata dal giudice soltanto in quelle ipotesi. In tutti gli altri casi, resterà invece applicabile soltanto la pena della multa, opportunamente graduata secondo la concreta gravità del fatto, oltre che i rimedi e le sanzioni civili e disciplinari.
“Se circoscritta a casi come quelli appena ipotizzati – ha osservato la Corte – la previsione astratta e la concreta applicazione di sanzioni detentive non possono, ragionevolmente, produrre effetti di indebita intimidazione nei confronti dell’esercizio della professione giornalistica e della sua essenziale funzione per la società democratica. Al di fuori di quei casi eccezionali, del resto assai lontani dall’ethos della professione giornalistica, la prospettiva del carcere resterà esclusa per il giornalista, così come per chiunque altro che abbia manifestato attraverso la stampa o altri mezzi di pubblicità la propria opinione”.
La Corte ha peraltro sottolineato che il legislatore resta libero, dal punto di vista del diritto costituzionale, di assicurare una tutela effettiva del diritto fondamentale alla reputazione individuale anche rinunciando del tutto alla pena detentiva. E ha ribadito comunque la necessità, già evidenziata con l’ordinanza n. 132 del 2020, di una complessiva riforma della disciplina vigente, allo scopo di “individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica, e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività”.