AGI - “L’unico libro di cui non si può spoilerare il finale. Devono ancora scriverlo i lettori”. Scherza, Pif, all’anagrafe Pierfrancesco Diliberto, regista, scrittore, ex Iena e attuale Testimone, sul fenomeno editoriale che ha scritto assieme al cronista d’inchiesta del Fatto Quotidiano Marco Lillo. Scherza ma non troppo: 'Io posso', scommessa edita da Feltrinelli e Paper First, resiste tra i primi dieci posti nelle classifiche di vendita da quando, a maggio, è uscito. “Ora - dicono gli autori ad AGI - con Il Fatto arriva un’edizione economica per le edicole: non ci sono scuse, anche in vacanza, ognuno può comprarlo. Sopra Io posso, nella saggistica, c’è solo Giorgia Meloni. Magari la scalziamo”.
Perché è importante?
Pif: “Perché i diritti d’autore sono stati ceduti alle protagoniste del libro, le sorelle Savina e Maria Rosa Pilliu, due donne di origine sarda che da trent’anni a Palermo combattono una personale guerra di mafia”.
Lillo: “E perché nei 57 giorni tra l’omicidio di Falcone e la sua morte, Paolo Borsellino ha voluto ascoltare la storia di queste donne ben quattro volte. Se lui, in quel frangente, aveva capito che era importante non lasciarle sole, chi di noi può tirarsi indietro?”.
Tutto inizia con un no: davanti al Parco della Favorita, centro di Palermo, un terreno suscita l’interesse di un costruttore, poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Sono gli anni 80. Per edificare un palazzo di nove piani deve acquistare e abbattere tutte le casette che stanno intorno: riesce a prenderle tutte tranne quelle della famiglia Pilliu. Intorno a quelle case girerà la storia della mafia e dell’antimafia degli ultimi trent’anni. Solo perché il nonno, e le sorelle poi, si ostinano nel no.
Lillo: “Il costruttore se ne infischia e va avanti, dichiarando che tutta l’area è sua, e con le ruspe danneggia l’abitazione delle Pilliu, che denunciano, iniziando una battaglia trentennale. Alla fine lui verrà condannato per concorso esterno, e dopo trent’anni dovrà corrispondere alle sorelle un risarcimento di 780.000 euro, che però non può versare, perché il patrimonio gli è confiscato. Lo Stato però manda una cartella esattoriale alle Pilliu, chiedendo il 3% sulla somma. Un paradosso: i soldi non arriveranno, ma le tasse vanno pagate”.
Pif: "In questi trent’anni lo Stato c’è stato. A tratti è scomparso e alla fine è comparso in modo un po’ maldestro. Non so se ci fosse bisogno di trent’anni, forse in un pomeriggio al catasto si sarebbe scoperto a chi apparteneva quella proprietà. Ora lo Stato chiede tasse su una somma che non si potrà incassare proprio perché è lo Stato a confiscare i beni al debitore. Non possiamo solo fare spallucce, altrimenti diamo un messaggio orrendo: è inutile fare le cose giuste. Intanto, anche il Fondo per le vittime di mafia cui le sorelle si sono rivolte nega loro il supporto”.
Perché?
Lillo: “Il costruttore era sì legato ad ambienti mafiosi, ma non quando lavorava. Un po’ un connivente a mezzo servizio”.
Pif: “A quel punto interveniamo: da anni ci occupavamo della storia. Decidiamo di scriverla in un libro e destinare a loro i diritti, riscrivendo il finale”.
Ma non era aperto?
Lillo: “Lo è: con quanto venduto finora abbiamo quasi coperto i 22.840 euro richiesti dalla cartella, ma ora vogliamo ricostruirle, le case. Sono un simbolo concreto di lotta alla mafia, e i palermitani si sono offerti di intervenire con donazioni o lavoro, Comune e imprenditori si sono fatti avanti”.
“Io posso” è un atteggiamento arrogante tipico dei prepotenti, dei mafiosi. Così dite: siamo noi che possiamo, noi tutti?
Lillo: “Ributtiamo la palla nel campo dei cittadini quando la partita sta per essere persa. È come chiedere agli spettatori di scendere in campo. I lettori hanno capito che è una battaglia simbolica a Palermo davanti a un palazzo dove - nascosto tra decine di persone perbene, magari ignare - ha abitato Brusca in latitanza dopo aver ucciso Falcone; dove sono passati i capi della mafia stragista, da Bagarella a La Barbera. Certe cose non si sanno: molti abitavano lì intorno e non ne avevano mai sentito parlare”.
Pif: “Io posso me lo disse un compagno di scuola che a fine liceo si era iscritto in due facoltà. ‘Ma non si può!’, dico. ‘Io posso’, risponde, imbarazzato. Vogliamo cambiare la prospettiva: l’azzardo è usare un’espressione che è sempre stata usata per non rispettare le regole e sovvertirla nel senso del rispetto. Noi possiamo perché siamo lo Stato e tu non puoi perché sei la mafia: è rivoluzionario. Concretamente. Pensare che la lotta debba essere lasciata alla magistratura e alle forze dell’ordine è sbagliato: finché non ci rendiamo conto che tutti siamo responsabili di un cambiamento, il cambiamento non ci sarà mai. Io, ingenuamente, mi occupo di questi temi perché non riesco ancora a capacitarmi che nella mia città ci sia la mafia”.
Una piccola storia racconta la grande: la mafia è violenta, anche quando non spara?
Pif: “Si inserisce nella quotidianità della città e viene ignorata: non ci sono i morti ma le minacce di morte. Due donne sole senza legami importanti vanno contro corrente. In questa storia c’è corruzione, ci sono pezzi delle istituzioni che non fanno il loro dovere, per paura: preferiscono passare la patata bollente ad altri. E c’è codardia: anche l’avvocato le molla. Savina prende una penna e il ricorso se lo scrive da sola”.
Sempre perché è donna.
Pif: “Abbiamo messo Santa Rosalia in copertina. Io che volevo per mia figlia piccola delle immagini di donne coraggiose, scrivendo questo libro ho pensato ‘Altro che Frida Kalho, le Pilliu devo appenderle in cameretta’. Penso che se non fossero state due donne sarde ma due fratelli siciliani forse non racconteremmo una resistenza, chissà quanti hanno mollato il colpo prima. Pare che il costruttore abbia detto ‘Se avessi saputo che due donne sole mi avrebbero fatto tutto ‘sto danno’…”
Se lo avesse saputo?
“Non si sa, non finisce la frase. Il finale è aperto, l’abbiamo detto”