AGI - Delle cento e cento storie che questo virus maledetto ci ha costretto a scrivere, da che ha bussato alla porta un anno fa, ce n’è una che merita il ricordo. Non perché sia speciale, e non è nemmeno più straordinaria. Lo dicono i giornali che non c’è niente di più banale di vivere insieme una sessantina d’anni per morire lo stesso giorno e dello stesso morbo, a pochi metri di distanza l’una dall’altro. L’abbiamo già sentita per l’appunto cento volte, ambientata altrove: da Bergamo in giù.
Comunque questa storia merita lo stesso, anzi merita ancora di più. Perché se i marciapiedi di Roma fossero ancora calcati da un Belli o da un Ettore Scola, da qualcuno insomma del mestiere, di questo amore ormai giunto al moccoletto farebbero sonetto, epopea, romanzo storico e saga familiare. Materia viva, insomma. Viva, alla faccia del covid.
Noi ci arrangeremo per quel che possiamo.
Roberto era nato a Sant’Eustacchio, in un palazzo che ora è del Senato. Al portone ancora oggi ci filtrano uno dei caffè più storici d’Italia. In famiglia amavano sparare: per diletto ma, magari, anche per un certo gusto alla ribalderia.
Per anni in casa ha circolato una pistola, un vecchio arnese senza più tamburo né grilletto, che si diceva fosse il regalo di uno dei Fratelli Cairoli a non si sa quale loro antenato briccone e antipapista. Rinchiusosi il Papa in quel del Vaticano, avevano continuato a sparargli davanti alla finestra, seppur con altri intendimenti.
Il nonno di Roberto, che stava in Tor di Nona, la mattina attraversava il Ponte di Castello e nei Prati non ancora aggrediti dai Piemontesi si dava alla caccia delle quaglie. All’ora di pranzo la moglie metteva un lenzuolo alla finestra e lui rientrava. Guai se faceva tardi. Un giorno arrivò dal nipote con in mano un fucile a piumini per iniziarlo all’arte venatoria, rendendolo felice.
Sparate al Borromini
Il problema, semmai, era che il nipote abitava nel palazzo sopra Sant’Eustacchio e che, da buon figlio unico, il pomeriggio si annoiava. Così si mise a sparare dalla finestra. Iniziò tirando ai piccioni ma poi scoprì la grandezza del Borromini.
Ci siamo dimenticati di dire che, oltre a qualche goccia di sangue blu arrivato da un pollone della famiglia Malatesta, gli ascendenti di Roberto erano pittori della Scuola Romana, usi a battere la campagna per cercare ispirazione. L’innata sensibilità all’arte del giovinotto si sarebbe sfogata col tempo nella scultura in legno; però sulle prime si concentrò sulla guglia di Sant’Ivo alla Sapienza, che rispetto alla sua finestra stava appena sull’altro lato della strada.
Il piumino veniva caricato, la mira presa e il colpo sparato. Se dopo un secondo si sentiva un tonfo sordo, allora era andata male: una tegola del tetto. Se la nota era metallica, benino: un discendente in bronzo che correva lungo gli elementi architettonici. Ma se la botta era secca, allora sì che era centro: la finestra proprio sotto la lanterna.
Quando la Guglia venne restaurata, anni dopo, nessuno però s’accorse di nulla. Evidentemente era intervenuta la mano dell’Altissimo; o per lo meno quella di Santa Pupa che a Roma si poggia sulla testa – è notorio – dei ragazzini scatenati.
Diciamo questo anche per spiegare che a Roma la fruizione dell’arte è cosa del tutto originale. Il piccolo Roberto non sparava per distruggere: sparava per conoscere. C’è una bella differenza.
Ciò detto, chiamato dalla vita alle noiose incombenze del lavoro, ne trovò uno che lo avrebbe teoricamente legato alla scrivania, ma lui ne fece occasione di personale realizzazione. Geometra sì, ma all’Acea: a caracollare cioè da mane a sera, con la scusa inattaccabile degli acquedotti da rivedere, per quella campagna che aveva fornito le migliori idee al Coleman e al Costantini.
All’Acea conobbe Anna Maria, che lui avrebbe chiamato Annarella e non poteva essere altrimenti. Erano grandini, tutti e due. A quell’epoca si era generalmente convinti che i matrimoni tardivi avessero tutti un non so che di rimediato. Se le cose stanno così, auguriamo tal rimedio alle coppie d’amanti giovani e focosi. Durò tutta la vita, con la spiga e la rughetta a far da infuso per un filtro che nemmeno Tristano e Isotta lo bevvero mai così potente.
Lei, poi, era di antica anche se misconosciuta nobiltà: era infatti sabina, cioé aveva il sangue delle grandi famiglie che una volta calavano lungo le strade dell’Urbe a darle i suoi più grandi condottieri. Anche il padre di Anna Maria era sceso a condurre per le strade di Roma, e infatti faceva il tramviere. Prima però era stato a Caporetto e sapeva bene cosa volesse dire avventurarsi per passi sconosciuti. La figlia avrebbe ereditato il suo senso pratico, anche questo importante per preservare gli equilibri familiari.
"Portatemi al San Camillo"
Andarono a vivere a Testaccio, essendo ormai il centro di Roma – come si usa dire oggi – “gentrificato”. Presero casa nel Palazzo delle Fate, poi erroneamente definito da tutti il Cremlino per via di una sezione del Pci, e di una del Psi di rito nenniano, che vi avevano sede assieme ad una stazione della Pubblica Sicurezza, piazzata lì da Scelba. Qui ristettero ed ebbero due figlie che si presentarono un giorno a casa con i fidanzati toscani. Uno fiorentino e l’altro versiliese.
Ai tempi del nonno che sparava alle quaglie i toscani venivano a Roma mica a prender moglie, ma a vendere il castagnaccio e a Roma li chiamavano i buzzurri. Roberto e Anna Maria accettarono la novità con l’aria di chi deve rassegnarsi: alla globalizzazione e a chi a Pasqua nemmeno mangia l’abbacchio. Ma il mondo invecchia, gentrificarono anche il Palazzo delle Fate e arrivò al piano di sopra un Presidente del Consiglio. Anna Maria regalava sempre le caramelle ai suoi ragazzi. Anche lui, sia detto per inciso, era toscano.
Quando si manifestò il coronavirus loro si erano fatti vecchi in un quartiere che una volta aveva generato il Valzer della Toppa, mentre adesso voleva solo pub e musica americana. Si rintanarono in casa, in attesa del vaccino. Ma quando lei lo fece era troppo tardi.
Si disse all’inizio che quella era una semplice reazione all’inoculazione. La verità è che il dannato virus si era impadronito di lei scegliendo con cura il tempo per entrare in scena. Giusto in tempo, vale a dire, per non comparire al tampone ed appalesarsi in tutta la sua cattiveria subito dopo la somministrazione. La portarono al San Camillo che pareva che dormisse.
Roberto rimasto solo in casa, dopo praticamente sessant’anni, non sapeva come fare. Perso come un bimbetto sulla spiaggia di Ostia, a metà luglio. Chiamò la figlia, che chiamò allarmata l’ambulanza. Vennero a prenderlo convinti di trovarlo tramortito con la febbre a 39 e l’ossigenazione a 86. Lui invece era vestito di tutto punto, sbarbato e con la borsa del cambio già preparata. “Vorrei andare al San Camillo. Lì conosco. C’è anche mia moglie”. Aveva la temperatura era 36,5, l’ossigenazione a 98. Quando vide l’ambulanza andare via, senza di lui, ci restò molto male.
La figlia che aveva chiamato il 118, dopo essersi scusata per l’incomodo con il personale sanitario, prese a sperare che anche quella volta Santa Pupa gli tenesse la mano sulla testa. Lo speravano anche l’altra figlia e i due generi buzzurri. Invece il destino aveva malignamente deciso di accontentarlo: in meno di un giorno la febbre si alzò e l’ossigenazione si abbassò. L’ambulanza questa volta partì carica. Mentre schizzava via, sul marciapiede passavano tre persone, tutte con la mascherina abbassata. Poi vai a chiederti come mai dal covid non si riesce a uscire. Roberto finì anche lui al San Camillo. Due stanze più in là c’era Annarella.
Peccato non si siano potuti incontrare, nemmeno con gli occhi.
“Lui se n’è andato al mattino; lei ci ha provato subito dopo, e lo ha raggiunto la sera”, ci dice ora uno dei generi. E ammette: “Uno senza l’altro non sarebbe stata cosa”. Proprio come Tristano, e proprio come Isotta. Rapiti dalla vita, perché solo quella vita era possibile.
Boia di un covid, che tu sia maledetto. Ma almeno in questo hai avuto pietà.