AGI - Tutto iniziò con un fazzoletto, e – adesso, in tempi di covid, la cosa sarebbe impensabile – un volgarissimo sputo. Così il Michelangelo della Sistina venne liberato da fumi e polveri che lo tenevano prigioniero fin dai giorni del Sacco di Roma. L’autore del gesto, tra l’evangelico il profetico e un sonetto del Belli, era Gianluigi Colalucci, che adesso, a 92 anni, ci ha lasciato.
Breve biografia: nato a Roma diplomato all'Istituto Centrale del Restauro di Roma, sotto la direzione di Cesare Brandi. Nel 1979 fu nominato restauratore capo del Laboratorio Restauro Dipinti e Materiali lignei dei Musei Vaticani e poco dopo, nel 1980, nominato capo del restauro della Cappella Sistina..
Il lavoro venne terminato nel 1994 e il mondo restò a bocca aperta a rimirar quei colori. Per taluni risultarono anche troppo vivi, ma c’è sempre qualcuno che esagera.
A raccontare il particolare dello sputo nel fazzoletto fu lui, tanti anni dopo, in un libro che non poteva che essere autobiografico. Tutto cominciò durante un restauro di routine. Si stava lavorando sugli affreschi tardo cinquecenteschi che decorano la controfacciata dalla Cappella Sistina, grazie ad un orribile quanto necessario ponteggio che arrivava su, fino alle lunette. E che fai, rinunci a guardar meglio?
Sotto il fumo grasso delle candele
Eleazar, così, gli si presentò davanti in tutta la sua grigia possenza. Grigia perché a forza di porcherie immesse nell’aria per cinque secoli o quasi, ad iniziar dal fumo grasso delle candele, da vedere c’era rimasto poco o nulla. E che fai, ti fermi davanti a così poco? Ecco il fazzoletto, ed Eleazar saltò fuori ringiovanito che pareva un puttino.
Era il 20 giugno 1980. Senza confessare troppe cose, Colalucci e i suoi sodali (erano in tre, su quel ponteggio), riferirono a chi di dovere, ed in un men che non si dica sul ponteggio c’era una squadra intera di restauratori. In 12 mesi la prima lunetta era presentata alla stampa, non senza soddisfazione né senso della pubblicità.
Fu, probabilmente, in un’Italia che correva a vedere al Quirinale i Bronzi di Riace il secondo grande passo in direzione del restauro-spettacolo. Con la doverosa precisazione che prima di tutto restauro, e di quelli seri, si trattava.
La cosa non impedì che, come al solito, nascesse il bipolarismo: andare avanti a tutti i costi (Giovanni Urbani); togliere le manacce dal capolavoro (Toti Scialoja, ma anche Warhol e Christo).
Vinse la prima delle due fazioni, e qui il colpo di genio: aperite portas, salite su ponteggi e godetevi, comuni mortali, la grandezza del Più Grande, che esplode di splendidi gialli e rossi, azzurri (se al Più Grande andava di spendere in lapislazzulo) e verdi.
Finite le lunette, ecco la volta con quel Dio che crea Adamo che nessun altro, nemmeno la pubblicità nei tempi del digitale avanzato e sfrenato, si poté esimere dal copiare.
Ma la mazzetta no
Nel frattempo si arrampicavano fin lassù uomini d’arte e teste coronate: re e regine e imperatori di Giappone, Danimarca, Spagna e Svezia, principesse come Margaret di Inghilterra. Marella e Gianni Agnelli, il quale, davanti ai dipinti non fece altro che ripetere: "molto divertente, molto divertente". Federico Zeri arrivò con al seguito una suora, che disse cose terribili.
Colalucci lo prese da una parte e gli chiese chi fosse. “Boh” rispose lui, “era al portone dei Musei”. Ci fu anche un tizio che prese da una parte il Colalucci e gli offrì 30.000 dollari dell’epoca per prendere il suo posto, di nascosto, al momento di ripulire il dito di Dio della Creazione.
Ma uno sputo per amore per l’arte lo si perdona, la corruzione no.