AGI – Il papiro l’hanno ritrovato in loco, vale a dire nella terra desertica di Masada, dove era stato abbandonato con un gesto forse di stizza da chi aveva emesso ricevuta. Un pezzo di carta, che gli archeologi hanno ribattezzato pomposamente frammento, come allora ce ne dovevano essere a migliaia, perché all’epoca una legione comprendeva dai seimila agli ottomila militari, più le truppe ausiliarie e la cavalleria. E proprio a un legionario di quelli addetti alla cavalleria apparteneva il rendiconto, attestante la ricompensa per il servizio reso a Roma in occasione di uno dei suoi massacri più famosi.
A Masada, imprendibile roccaforte salda nella roccia a poca distanza dal Mar Morto, protetta da profondi dirupi e da venti torri unite da un chilometro e mezzo di mura, si erano rintanati gli irriducibili della prima guerra giudaica. Il Tempio di Gerusalemme era stato saccheggiato già tre anni prima da Tito, che con il tesoro rapinato aveva fatto erigere a Roma il Colosseo: a maggior gloria della stirpe Flavia.
Si trattava ora di far pulizia delle ultime sacche di resistenza, ma che dopo tre anni le sacche continuassero ad esistere la dice lunga sulla qualità dei resistenti.
L’assedio dura mesi e mesi, anche perché solo per arrivare sotto quelle mura a dirupo sul vuoto bisognava marciare su un sentiero stretto e pericoloso che ancora oggi si chiama, e non è un caso, la via del serpente. Dentro, racconta il rinnegato Flavio Giuseppe, 960 tra combattenti ebrei e le loro famiglie si erano votati a non arrendersi, mai.
Gli specialisti del massacro
Non è un caso che i Romani facessero intervenire la Legione X Fretensis: si era distinta nell’assedio di Gerusalemme e nel successivo tremendo massacro del Tempio, in cui non ci fu rispetto per nulla e per nessuno. Le poche sepolture rinvenute dagli archeologi parlano di esecuzioni di rara crudeltà. Inutile dire che a donne e bambini non vennero risparmiati i peggiori supplizi.
Della Fretensis sterminatrice faceva parte anche Gaio Messio, che è l’uomo della ricevuta in cui era scritto l’ammontare del compenso per aver preso Masada.
Masada infatti cadde, alla fine: i Romani (grandi militari e grandi ingegneri) avevano risolto il problema della via del serpente costruendo una rampa faraonica che collegasse il piano sottostante alla porta della fortezza, centinaia di metri più in alto. Così avevano potuto piazzare con maestria le loro macchine da guerra ed avere lo spazio per le manovre della truppa, a piedi e a cavallo.
La Legio X si ritrovò così nel suo ambiente naturale: anche a Gerusalemme l’avevano dislocata proprio sotto quello che oggi è il Monte del Tempio, in corrispondenza della Porta del Letame.
Come già a Gerusalemme, il blocco della fortificazione fu totale e l’assedio fu tremendo. Quando si decise l’assalto finale dentro erano rimasti solo pochi sopravvissuti. E qui Giuseppe Flavio, cui dobbiamo gran parte del racconto, riferisce di un epilogo che, vista la natura dell’assedio, non poté che essere apocalittico.
Il capo dei ribelli, Eleazar, “vedendo il muro rovinato dal fuoco, non scorgendo più nessun’altra possibilità di scampo o di eroica resistenza, immaginandosi quello che i Romani, una volta vincitori, avrebbero fatto a loro, ai figli e alle mogli, deliberò la morte per tutti”.
Si scelse a sorte il commando degli esecutori, ed iniziò la mattanza: “tutti uccisero l’uno sull’altro i loro cari, quindi si distesero ciascuno accanto ai corpi della moglie e dei figli e, abbracciandoli, porsero senza esitare la gola agli incaricati di quel triste ufficio”. Quando Messio entrò a Masada, passando per le rovine del muro crollato, trovò solo un mucchio di cadaveri.
A questo punto inizia la storia del frammento di papiro, così come lo hanno trovato, conservato e tradotto l’archeologa Joanne Ball ed un gruppo di suoi colleghi britannici, andati a sfruculiare il terreno proprio là dove gli assedianti avevano posto le loro tende.
Come nel Campo del Vasaio
Infatti ogni massacro ha la sua parte amministrativa e burocratica, e anche gli sterminatori hanno diritto alla loro onesta mercede. Ecco come e quanto fu pagato per la carneficina Gaio Messio, figlio di Gaio, della tribù Fabia, di Berito, sotto il quarto consolato dell’imperatore Vespasiano Augusto: “indennità di 50 denari, con cui ho pagato l’orzo: 16 denari; spese per alimenti: 20 denari; stivali: 5 denari; cinturini in pelle: 2 denari; tunica in lino: 7 denari”.
Entrate: 50. Uscite: 50. E dal momento che il legionario pagava di tasca sua il mantenimento suo, del cavallo e delle armi, il conto va pari a zero. Zero. Nulla. Nemmeno Giuda prima di finire nel Campo del Vasaio era stato pagato così poco, con quella maledetta moneta di conio romano fatta d’argento grondante sangue.
E Roma, la grande dea che proprio pochi anni prima Caligola aveva cercato di piazzare nel Sancta Sanctorum del Tempio di Gerusalemme, a uno dei suoi figli più terribilmente fedeli con una mano dava e con l’altra prendeva, lasciandolo in tunica di lino. No, non da madre si comportava, Roma, e nemmeno da matrigna. Più propriamente, la gran dea, si comportò da madre ignota.
Ecco perché è facile immaginarsi Gaio Messio, della tribù dei Fabii, che emette la ricevuta di pagamento ma poi, colto da rabbia, getta nella polvere ocra di Masada il suo papiro, magari dopo averlo stracciato in un impeto d’odio. E lì questo è rimasto, per venti secoli, a inaridirsi all’aria del deserto; ma soprattutto a testimoniare la crudeltà, e la grettezza, di Roma.