AGI – Verrebbe da dire: ma qual è il problema? Verrebbe da dirlo, se il caso dei dubbi sul potenziale colore della pelle del piccolo Archie Windsor, principino misconosciuto, non fosse doloroso. Perché delle due l’una: o le accuse mosse dalla madre a Buckingham Palace, di aver temuto cioè un piccolo troppo scuro di incarnato, sono false, e allora si commentano da sole. O sono vere, e allora se possibile la verità sarebbe più triste ancora. Dacché la casa reale, che ha regnato su un impero su cui il sole non batteva mai, tutto può essere men che discriminatrice, se non altro per rispetto ai liberi e multietnici sudditi di Sua Maestà britannica.
Soprattutto, se così fosse (ed aspettiamo il responso dell’inchiesta interna annunciata da Elisabetta), se così fosse si diceva vorrebbe dire che non solo in quel nobile palazzo albergano delle serpi razziste, ma anche che il casato Windsor è segnato da un’ignoranza storica crassa quanto grave. Grave perché allignata in cotanta tradizione. Tanto più che questa storia si svolge in una terra, la Toscana, per la quale i Windsor nutrono da sempre grande affetto e grande ammirazione e, ammettiamolo, non hanno certo torto.
Conclusa la lunga ma necessaria premessa, passiamo a riferire.
Più scuro di Lorenzo
Era il 1510, o 1512: non si sa bene. In Casa Medici, padrona di Firenze ma in quel momento temporaneamente detronizzata, nasce un bambino: simbolo di speranza. Ma il bambino non è biondo come imponevano i canoni botticelliani dell’avvenenza di quell’epoca. Al contrario: è nero di capelli e di carnagione. Si dirà: e allora? Anche Giuliano, la sfortunata vittima dei Pazzi, era nero di capelli. Anche Lorenzo era nero di capelli e di carnagione. Sì, ma il fantolino è molto scuro, più di Giuliano e persino di Lorenzo. Nasce un sussurro, che diventa una voce, poi un grido: è mulatto. Come sua madre.
Ora, della madre qualcosa si sa anche se non tutto. Si chiamava Simonetta, detta poi da Collevecchio perché fu prontamente data in moglie, una volta ceduto al padre il frutto dell’amore, ad un carrettiere in quel della Sabina papalina.
Pare fosse una serva, come spesso accadeva, il che parrebbe escludere ascendenze che non fossero europee. Ma il fatto è che le famiglie ricche e nobili della Toscana dell’epoca tenevano in casa, spesso e volentieri, servitù di origine magrebina o comunque africana. Quindi non si può escludere nulla, almeno a priori.
Il problema, semmai, è un altro, e cioè chi fosse il padre.
Il discorso a questo punto si fa, se possibile, ancor più delicato e complicato. Di padri presunti infatti ce ne sono addirittura due, e in nessuno dei due casi il casato ne esce bene. Si tratta infatti o di Lorenzo duca di Urbino, nipote del Magnifico, oppure - e la cosa è ben peggiore – del cardinale Giulio, il futuro papa Clemente VII.
Vero: a Roma come a Firenze sono abituati alle scorribande dei Borgia, e questa in confronto è acqua fresca. Ma il problema è anche politico: di eredi diretti il ramo principale dei Medici non ne ha. Il bambino quindi nasce in mezzo ad un gioco più grande di lui, perché l’unico a potergli insidiare il posto è un altro piccolo illegittimo. Si chiama Ippolito, figlio naturale di Giuliano di Nemours, a sua volta fratello del futuro pontefice.
Possibile spiegazione della possibile fake news sulla madre del ragazzo: lo si vuole screditare per favorire il diafano Ippolito. Ad ogni modo lui è pur sempre figlio di papa umanista, oltre a essere olivastro di pelle. Pertanto non possono che dargli come nome quello di Alessandro, al pari del Macedone, e appioppargli come nomignolo quello di Il Moro, come il Ludovico che ha appena cessato di essere signore di Milano.
Comunque di Ippolito nessuno si ricorda più, se non che lo fecero cardinale per sgombrare il campo. Quanto ad Alessandro, invece, si sa tutto perché diviene colui che rilanciò i destini altrimenti compromessi dei Medici.
Il Duca e lo scultore
A 10 anni il padre Pontefice se ne buggera delle malelingue e gli concede il titolo di duca di Penne, ed è solo l’inizio. A nemmeno trenta, infatti, eccolo signore di Firenze con la benedizione papale e imperiale, avendolo istallato Carlo V.
E’ lui, per intenderci, che costringe Michelangelo a chiudersi dietro un falso muro delle Cappelle Medicee a San Lorenzo, per sfuggire all’ira dei definitivi padroni della città. Perché da quel momento in poi non c’è più partita: i Medici non se ne andranno più da Firenze, e questo grazie ad un figliolo ardimentoso anche se partito da posizione svantaggiata.
I ritratti ce lo consegnano come giovane e dotato di due occhi ardenti e molto mediterranei, come nel caso del Bronzino. Oppure preso di profilo a mettere in mostra un naso che è quello del Magnifico, come fa il Vasari. Il quale è un gran briccone, e ce lo dipinge in armatura da conquistatore come il Macedone e il lontano zio Giovanni dalle Bande Nere, ma in una postura che ricorda le statue michelangiolesche delle Cappelle Medicee. Come dire: non ce la farai mai a farci stare zitti, Firenze non sei tu.
Mancano a questo punto due sole cose: il finale della storia, e la sua morale. Il finale è presto detto: Alessandro divenne duca di Firenze, primo della sua famiglia a ricevere un titolo nobiliare con diritto di passarlo ai discendenti. L’ascendente, cioè la madre, morì povera mentre il figlio ne ignorava le richieste di aiuto, perché in Toscana si dice “villano nobilitato non conosce il suo parentato”. Di discendenti non ne ebbe, perché fu ammazzato ancor giovane da un cugino amico di scorribande, e gli successe Cosimo futuro Granduca e rampollo di un ramo secondario.
Quanto alla morale, ce ne asteniamo se non per un pensiero generale. Cioè che alle grandi famiglie non può far paura un neonato, perché sono grandi e sono famiglie. Senza pensare alle grandi soddisfazioni che quel neonato può regalare, basti ricordarsi che l’incarnato è sempre cosa secondaria.