AGI - Riprende dal luogo da dove partì il vecchio Abramo, la terra dei Caldei, la peregrinazione di Francesco papa del dialogo tra le religioni. Tornerà, Bergoglio, a salire la scaletta di un aereo dopo un anno di pausa imposta da una catastrofe di dimensioni bibliche, che ha imposto all’umanità nuovi orizzonti e nuovi fini. Meta del viaggio apostolico l’Iraq: culla di Ur da dove Dio trasse il Patriarca per condurlo verso la terra di Israele, promettendogli di benedire attraverso di lui tutti i popoli del mondo.
Cuore del Medioriente e chiave dei suoi problemi, l’Iraq visto nell’ottica della Chiesa vuol dire: pace da ricostruire dopo lotte fratricide e assassini nel nome del fondamentalismo; ritorno da permettere a popoli perseguitati e violati; dialogo da lanciare con l’altra parte dell’Islam. Quel mondo sciita, vale a dire, che Bergoglio intende coinvolgere nella costruzione di quella fratellanza umana che già lo ha visto ragionare, ad Abu Dhabi, con i sunniti.
Non si esaurirà quindi, il viaggio, in una lista di richieste da presentare ad autorità civili che pure hanno mostrato interesse a reintegrare la comunità cristiana nei suoi diritti. L’altra metà del progetto, quella del dialogo interreligioso, si presenta altrettanto delicata e interessante. “Siete tutti fratelli” ha fatto scrivere il Pontefice nel logo della visita, e lo ha fatto scrivere in arabo, caldeo e curdo. Fratelli tutti, ripetuto ovunque e a chiunque.
E Wojtyla disse: "Smettetela, giovani senza esperienza"
E’ la prima visita di un Papa nel paese mediorientale. Già Giovanni Paolo II aveva sognato di vedere Ur passando per Bagdad, ma non si potè fare. Successive ricostruzioni hanno parlato di pressioni americane volte a impedire che Saddam Hussein ne traesse un tornaconto diplomatico: era ancora il 2000, ma lui era già sulla lista dei pariah internazionali.
Tre anni dopo era la Guerra del Golfo che Wojtyla cercò di scongiurare anche con un appello dai toni profetici, perché non c’è bisogno di essere Abramo per essere più grande dei propri tempi. «Io appartengo a quella generazione che ha vissuto la seconda Guerra Mondiale ed è sopravvissuta”, disse all’Angelus, “Ho il dovere di dire a tutti i giovani, a quelli più giovani di me, che non hanno avuto quest’esperienza: “Mai più la guerra!”.
I giovani dell’epoca si chiamavano Bush, Blair e Aznar. Oggi Francesco arriva nell’Iraq il cui tormento, iniziato con quella guerra dei giovani del 2003, non è mai finito.
Non solo i cristiani e nemmeno solo gli yazidi nella lista delle minoranze tormentate. I sunniti, in Iraq, sono stati predominanti nonostante la loro inferiorità numerica rispetto agli sciiti. La cacciata di Saddam, egli stesso un sunnita, ha rovesciato sin troppo la situazione. L’essere sunniti i terroristi di Daesh, lo stato integralista creato per anni su buona parte del territorio del Paese dall’Isis, non aiuta certo il dialogo tra due comunità divise da secoli e secoli.
In più il terrorismo fondamentalista è tornato a farsi sentire anche poche settimane fa: 35 morti nello scoppio di un’autobomba nel pieno centro di Bagdad. Si ritiene sia stato un segnale in vista delle prossime elezioni politiche, ma anche la vicinanza del viaggio papale è particolare che non può essere ignorato. Anche la recente decisione della Amministrazione Americana di colpire le basi dei terroristi filoiraniani, al confine con la Siria, dà l’idea della complessità del quadro.
Inevitabilmente grandi le attese nelle singole comunità religiose, a partire dai cristiani. Il cardinal Louis Raphael Sako, patriarca dei caldei, sottolinea il carattere pacificatore della missione. Lui ha lavorato per anni perché si realizzasse, ora spera in un successo per la causa della pace: riporterebbe serenità e creerebbe condizioni più vivibili per il suo popolo.
Questa invece la mappa dei cristiani tutti, che in Iraq sono variegati per motivi storici e culturali come in pochi altri angoli del mondo.
I caldei rappresentano la maggioranza, poi ci sono i siro-cattolici, un buon numero. Ben più modesti per dimensioni quanto di rito latino o greco, poi i copti i maroniti e gli armeni. Vanno aggiunti gli Assiri e diverse sette protestanti. Sì, ma in tutto quanti sono? Una volta un milione e mezzo, ma da quando l’Occidente ha fatto cadere Saddam Hussein (dittatore spietato che bombardava i curdi con il gas e al contempo impediva altri tipi di scontri intestini) in centinaia di migliaia sono stati fatti fuggire a colpi di rapimenti, attentati, violenze e discriminazioni.
Una comunità come quella cristiana, che rivendica origini apostoliche e parla aramaico come ai tempi di Cristo, è ridotta ad un decimo di quello che era: 150.000 individui.
I tre anni di dittatura teocratica dell’Isis a nord, poi, hanno svuotato la piana di Ninive di quasi tutti i suoi abitanti. Ora chi vuole tornare deve affrontare, tra l’altro, la difficile battaglia per la restituzione dei beni confiscati.
Una croce piantata a Qaraqosh
Uscire dalla Terra di Ur fu difficile per Abramo, rientrarvi lo sarà ancor di più per i suoi discendenti. Eppure qualche segnale positivo non sfugge: secondo l’arcivescovo caldeo di Kirkuk, Yousif Mirkis, in talune zone tra il 40 ed il 45 percento dei cristiani ha già fatto ritorno “ai loro villaggi ancestrali, ed in particolare a Qaraqosh”. Qui – potenza dei simboli – la chiesa locale ha subito visto piantare una croce proprio dove gli uomini del Daesh avevano sistemato un deposito di munizioni.
E lo stesso Papa Francesco dovrebbe riportare in loco, sempre nella chiesa di Santa Maria Immacolata, il Sidra, prezioso ed antico manoscritto in aramaico contenente preghiere e liturgia: l’identità di un popolo rappresentata dalle sue radici religiose. L’Isis tentò di distruggerlo, una volta sottratto alla sua furia è stato portato in Italia, dove è stato amorevolmente restaurato. Ora torna a casa, ed indica la strada agli uomini.
Anche per loro, per i cristiani di Ninive, è importante che abbia successo il lancio del dialogo con gli sciiti. Minoritari nell’Islam, sono maggioritari in Iraq, e non di poco. Sako ne ha visto e contattato molti esponenti, anche nelle ultime settimane, per preparare al meglio l’incontro “di amicizia” con l’ayatollah Ali Al-Sistani, il leader spirituale. Lui e Bergoglio si incontreranno a Najaf e, secondo alcune fonti, la speranza è quella che si arrivi alla firma di un documento comune dedicato alla convivenza ed alla fraternità.
Obiettivo molto alto, che ricalca la dichiarazione di Abu Dhabi sottoscritto con i sunniti rappresentati dall’Imam dell’università cairota di al-Azhar, Ahmad Al-Tayyb. Si legge, nel “Documento per la fratellanza umana per la pace”, che si tratta di “una dichiarazione comune di buone e leali volontà, tale da invitare tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché esso diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli”.
A ben guardare, è esattamente quello che Dio promise ad Abramo nel trarlo dalla terra di Ur dei Caldei. E ad Abramo è dedicata la quattordicesima sura del Corano.