AGI - Tra vent’anni si sarà ridotto della metà, tra trenta sarà la metà della metà. Poi sempre meno, poi più niente, e allora in questo mondo violento e mercenario del profumo di Dio non ci sarà più nemmeno traccia. Svanito nel nulla, sparito dalla faccia di una Terra che, se non ci sbrighiamo a trovare il rimedio, sarà secca e arida perché da essa non si leverà verso il Cielo la sua fragranza più nobile e sacra.
E allora sarà non Eden, ma bolgia di esalazioni, officina di Messer Satanasso, fabbrica di orchi tolkeniani al servizio del traditore Saruman e della sua testa fatta di metallo e di ingranaggi. Potenza del profumo, miracolo dell’incenso: trasforma l’ignobile nel sublime, l’umano nel trascendente, il troppo umano nel divino. Speriamo sopravviva, ma non è mica scontato.
Lo si legge in una rivista specializzata, “Nature Sustainability”: di incenso ce n’è sempre meno, lo si produce quasi a stento e ne consuma troppo. Il duplice assunto dà, alla fine dell’equazione, un pari a zero. È solo questione di tempo.
Lo si produce tra Somalia, Yemen, Etiopia, Sudan e India settentrionale. Non c’è una di queste lande che non sia piagata dalla guerra, o almeno non sia a forte rischio. Campi distrutti, raccolti bruciati, commercio in nero. Nemmeno fosse oro, o rame. Lande che sanno di racconti straordinari e di viaggi avventurosi: il Prete Gianni, Sinbad il Marinaio. Menelik il figlio misterioso di Salomone e della Regina di Saba. Carovaniere battute da silenziosi dromedari, nel silenzio mistico del deserto.
Poteva avere altra scaturigine, il cammino dell’incenso? È fatto di gocce di linfa, chiara come l’acqua e scesa giù, lentamente, dalla tenera corteccia della boswellia incisa oggi allo stesso modo in cui si faceva già tremila anni prima di Cristo, come rugiada sul Monte di Sion. Diventa quasi un’ambra, si indurisce come l’ambra ma se l’ambra era considerata fuoco solidificato, le gocce solide di incenso fuoco sono destinate a tornare, e allora si sprigiona la fragranza che all’Altissimo rende omaggio e onore, perché solo Lui poteva non solo creare, ma anche semplicemente immaginare qualcosa di così ultraumano.
Già il Salmo gli rende grazie equiparandolo alla pura preghiera. I Greci lo scoprirono dopo. I poveretti, figli di una civiltà speculativa ma non contemplativa, agli dei dedicavano la parte migliore del sacrificio: il fumo della vittima poggiata sulle fiamme. Soluzione non priva di devota ingegnosità, ma tutto sommato poca cosa: l’effetto è riproducibile in qualsiasi casa contemporanea che sia dotata di giardino. Basta accendere il barbecue.
Il cibo dell'Araba Fenice
Solo il contatto ellenistico con Babilonia li rese edotti della forza mistica di quell’essenza, che comunicarono ai Romani tramite Teofrasto ed al suo trattato sugli aromi. Plinio e Virgilio sostenevano fosse il nutrimento dell’Araba Fenice, e sulla loro scorta lo avrebbe sostenuto Dante: più mirabile sintesi di cibo dell’anima, di salvazione nella sconfitta della Morte non poteva essere data.
Venne Cristo sulla Terra e tre sapienti glielo porsero in regalo insieme all’incenso e alla mirra, nel racconto di Matteo. Re del Mondo, Uomo destinato alla morte ma siccome anche Dio teso alla Resurrezione. Ragion per cui i miseri eredi orientali di Augusto vollero che l’incenso cesaropapista bruciasse alle Blacherne di Costantinopoli, ben dopo il Concilio di Nicea.
La Chiesa Latina seguì l’esempio solo dopo aver chiarito i rapporti con gli imperatori franchi, e si era fatto l’Anno Mille, ma siccome le lingue romanze portano con sé i loro residui morenici della storia, ecco che l’incenso in inglese si dice ancora oggi franchincenso, come nel francese antico, ad indicare la purezza e la libertà dell’uomo in preghiera di fronte al suo Unico Signore. L’altro, il signore degli uomini, la corona la deve al Papa, che è capo dei credenti.
Ecco l’ultima tappa del cammino dell’incenso, la Chiesa. In quelle orientali vi si ricorre con gran scialo, anche in quella cattolica il consumo non è indifferente. Non che se ne faccia abuso: lo si brucia di fronte all’altare in occasioni particolari e solenni. Ma il numero delle stecche di essenza moltiplicato per il numero delle funzioni e poi per quello delle chiese dà comunque il capogiro.
Su Internet lo si trova a tutti i prezzi, ma soprattutto nella sua versione orientaleggiante parabuddista. Troppo New Age per essere ortodosso, troppo al ribasso per non puzzare – sì, puzzare – di imitazioni, se non di strani traffici non sempre confessabili. Su certi siti, che si presentano con nomi di santuari, la quotazione è ben altra: 100 euro al chilo. Non è oro, ma bene di lusso sicuramente sì.
Studiosi della Johns Hopkins sostengono, sulla base dell’immancabile ricerca universitaria, che contenga sostanza atte ad alleviare ansia e depressione, ed in tempi di coronavirus la notizia è rassicurante. Ma la circostanza potrebbe portare all’impennata dei consumi con conseguente peggioramento delle prospettive di sopravvivenza. Sarebbe meglio non far circolare la notizia, ma è impossibile.
La si consideri quindi non un’esortazione a correre verso il rimedio salvifico alle nostre materialistiche notti insonni, ma alla riflessione su come la paura e l’irresponsabilità potrebbero indurci, per l’ennesima volta, a comportamenti sconsiderati.
Stephen Johnson, un biologo americano esperto in materia, ha rassicurato il Catholic News Service: “basta ripristinare, per evitare il peggio, una sorta di controllo sulla catena di produzione”, basato sulla perfetta tracciabilità della provenienza dei prodotti e l’eventuale sostituzione della coltura eticamente riprovevole con una produzione autogestita. Magari in attesa che gli scenari politici, in certe zone dell’Africa e del Medioriente, tornino ad essere ragionevolmente tranquilli.
Insomma, orti di boswellia nei giardini e sui cigli delle strade. Un po’ come le foreste create in Scandinavia per produrre la carta senza intaccare l’ecosistema generale. Ma l’idea sa vagamente di semplice sostituzione della fonte primaria di produzione in un normale ciclo produttivo.
Già per la vaniglia del Madagascar sarebbe difficile sostenere l’eticità di spostare la produzione fuori del suo territorio naturale, con conseguenze incalcolabili per gente che da secoli non coltiva altro; figuriamoci con l’incenso. Che intanto continua a bruciare, ad maiorem Dei gloriam, perché quello è il suo profumo. O almeno lo sarà, fino a quando l’uomo non commetterà l’ennesima offesa alla Sua volontà.