AGI - Sapevamo che c’erano giornalisti minacciati. Intimiditi dalle mafie, dal terrorismo, finanche da potentati economici, da lobby occulte, costretti per questo alla scorta di polizia. Sapevamo meno delle giornaliste: per lo più insultate, minacciate, additate, rigorosamente con epiteti sessisti irripetibili. Volgarità allo stato puro. E brado, come i branchi da insulto usano fare. Specie via web. Al riparo da possibili intercettazioni e sotto nick name, nomi di fantasia, occulti, anonimi, falsi, non sempre rintracciabili.
Di questo ci narra ”#Staizitta giornalista!”, sottotitolo “Dall’hate speech allo zoombombing, quando le parole imbavagliano” (Edizioni AllAraund, con il patrocinio Della Fondazione per il giornalismo Paolo Murialdi, la Fnsi, l’Associazione Giulia-Giornaliste Unite Libere Autonome, l’Ordine professionale), scritto da Silvia Garambois e Paola Rizzi, giornaliste di vaglio ed esperte nell’inchiesta e nell’analisi. Il loro è un dettagliatissimo rapporto, con molte testimonianze in presa diretta, dell’”odio contro le donne e il loro giornalismo”.
Si potrebbe anche dire tranquillamente “tutta colpa dei social”, strumenti di comunicazione senza filtri che, nella progressiva disintermediazione dei rapporti tra fonte emittente e pubblico ricevente, “hanno aggravato il problema, come veicoli un tempo impensabili di offese e minacce”, si legge.
In ”#Staizitta giornalista!”, la casistica delle offese documentata è ampia e non affatto irrilevante nei toni dove, al fondo, si tratta di vicende “davanti alle quali i peggiori ‘maschi’ non sopportano che siano donne giornaliste a indagare e a informare”. Nel range degli epiteti raccolti e selezionati c’è di tutto: si va dalle offese a sfondo sessuale a quelle di chiara matrice xenofoba a quella religiosa, di odio verso gli ebrei che le autrici definiscono “mani mafiose”, “una regia dello squadrismo digitale che ha natura politica e che dovrebbe interrogare la politica stessa”.
E invece segue “un silenzio assordante”. Tanto che “alle donne che vivono questa realtà spesso viene detto: ‘Lascia perdere’, ‘Fatti da parte per qualche tempo’”. Perno delle offese, “la più longeva forma di hate speech è certamente lo slut-shaming, che consiste nello stigmatizzare una donna per la sua reale o presunta condotta sessuale (si potrebbe tradurre come ‘dare della sgualdrina’)” e che diventa ingrediente essenziale della odierna “cultura dello stupro”, sottolinea nel volume Elisa Giomi, commissaria AgCom. Su Twitter gli algoritmi di ricerca hanno analizzato 45.448 tweet postati dai vari profili, che hanno prodotto 793.302 menzioni, in tutto il 57% di commenti e menzioni negative.
Analizzando poi i singoli profili, attraverso il lavoro di documentazione di ”#Staizitta giornalista!”, si vede che le giornaliste più attive sui social network o più esposte raccolgono anche più del 60% dei commenti negativi. Un secondo grafico mostra poi l’incidenza percentuale dei tweet di odio sul totale dei tweet estratti nel corso di due ultime rilevazioni: su 215.377 tweet totali nel 2019 il 30% erano positivi e il 70 negati mentre l’anno successivo, il 2020 su un range di 1.304.537 tweet analizzati, il 57% sono stati positivi e il 43 negativi, con una chiara inversione di tendenza.
Tuttavia, resta la sostanza dell’insulto. E dal 2016 al 2020 la categoria più colpita è quella delle donne mentre col passare del tempo aumentano anche minacce, insulti, offese a migranti, musulmani, disabili, omosessuali, ebrei. Intanto nell’estate del 2019 è nata na “Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio” per catturarlo soprattutto online, perché nel frattempo l’odio contro le giornaliste “è diventato un allarme globale”, tant’è che nel 2013, l’Onu ha istituito il 3 novembre la giornata internazionale per la fine dell’impunità dei crimini contro i giornalisti, com- prese le aggressioni che vengono lanciate nel mondo virtuale”.
Secondo uno studio del 2018 dell’IWMF, International Women Media Foundation, di base in Usa, a cui hanno partecipato 597 giornaliste in tutto il mondo, il 63% delle donne è stata minacciata online almeno una volta, una su dieci ha ricevuto minacce di morte e in conseguenza di ciò il 56% ha dichiarato di avere avuto problemi di stress e salute, il 58% di insonnia, il 57% panico. La maggioranza non ha riferito i casi ai superiori.
Il 29% ha pensato di cambiare mestiere e il 37% ha cominciato a evitare di trattare certe storie, abdicando alla propria funzione e ruolo. A dicembre 2020 è stato poi diffuso anche il rapporto realizzato dall’Unesco in collaborazione con l’Icfj (International center of journalism) intitolato “Online Violence Against women Journalist” che registra come il 73% delle 901 giornaliste che hanno risposto al sondaggio sia stata bersaglio di violenza online.
Uno dei dati più allarmanti è che ben il 20% ha subito aggressioni nella vita reale in qualche modo associate alla violenza online di cui erano state oggetto. Tra le testimonianze, quelle di Angela Caponnetto, Nunzia Vallini, Monica Napoli, Marianna Aprile, Marilù Mastrogiovanni, Elisabetta Esposito, Antonella Napoli.