AGI - “Il Covid mi ha cambiato tutte le prospettive lasciandomi l’idea di cosa significhi la parola dono. Semplicemente: poter andare a trovare i nonni coi bambini, stare con gli amici in tranquillità”. Virginia, 33 anni, ha vissuto il virus in tutti i modi: come operatrice sociosanitaria in una casa per anziani, come malata visto che ha colpito lei, la figlia e i genitori e come abitante di Codogno, l’epicentro del virus.
Del 21 febbraio ha dei ricordi precisi “perché tra noi qui ne parliamo sempre”.
“Abbiamo portato i figli a scuola e poi, assieme alle altre mamme come succede quando ho la mattina libera, siamo andate a bere il caffè. Abbiamo sentito alla tv che il primo caso di coronavirus era a Codogno e, subito dopo il primo momento di stupore, abbiamo scoperto che era Mattia, un ragazzo che in famiglia conosciamo. Eravamo però tranquille, abbiamo pensato che la cosa sarebbe finita lì e Mattia si sarebbe rimesso”.
Finché a Codogno si sono ‘specchiati’ sullo schermo della televisione: “Allora per curiosità siamo andate davanti all’ospedale e ci siamo rese conto dal numero di troupe di giornalisti che la situazione era allarmante.
Al pomeriggio sono andata nella casa di riposo in provincia di Cremona dove lavoro, alla sera la direzione mi ha chiamata dicendo che sarei dovuta rimanere a casa il giorno dopo. Intanto dalla scuola mi esortavano ad andare a prendere i bambini perché alle 14 avrebbero chiuso”. Tra le immagini che ricorda con più nitore c’è il pianto degli scolari fuori dalla scuola.
“I piccoli - prosegue Virginia - piangevano perché tanti genitori non si erano riusciti a liberare per andarli a prendere. Lì iniziavamo ad avere la percezione di un incubo ma il peggio doveva ancora venire”.
Il “peggio” per Virginia è stato che il Covid ha infettato la sua famiglia: “Ha cominciato mia mamma che si è fatta 15 giorni a casa di febbre prima del ricovero, poi papà in subintensiva, poi il nonno pure in ospedale. Infine mia figlia di 9 anni e io, per fortuna a casa e, una volta alla settimana, ben curati all’’Ambulatorio della tosse’ del paese che nel frattempo era diventato l’’Ambulatorio del Covid’”.
Tra una quarantena e una degenza, è tornata al lavoro a metà marzo per tre settimane per poi essere costretta a casa fino a maggio: “E’ stata dura, sono morti alcuni dei nostri ‘nonnini’, così li chiamiamo perché lavoriamo lì da tanti anni, io da nove, è una famiglia. I dispositivi di protezione erano contati, avevamo tutti paura e il contagio sembrava non fermarsi mai. Tanti ospiti hanno avuto però la forza di riprendersi da brutte polmoniti e adesso guardano dal vetro i loro cari, in attesa di poterli abbracciare”.
Virginia è stata anche una delle prima a essere vaccinate ma la paura c’è ancora “Dovrei stare serena, sono vaccinata e i miei familiari dovrebbero avere gli anticorpi. Ma anche oggi, che sono stata al parco con mia figlia, quando ho visto un capannello di 5 persone mi sono ritratta istintivamente”.