AGI - “Emanuele Mancuso mi disse che Maria Chindamo venne fatta macinare con un trattore o data in pasto ai maiali. Mi disse che lui era amico di un grosso trafficante di cocaina, detto "Pinnolaro", legato alla famiglia Mancuso da vincoli storici e mi disse che per la scomparsa della donna, avvenuta qualche anno fa, c’era di mezzo questo "Pinnolaro" che voleva acquistare i terreni della donna in quanto erano confinanti con le terre di sua proprietà. "Pinnolaro" aveva pure degli animali, credo che facesse il pastore e questa donna si era rifiutata di cedere le proprietà a questa persona”.
Sono al vaglio della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro le dichiarazioni rilasciate dal collaboratore di giustizia di Potenza Antonio Cossidente, ex boss del clan dei Basilischi – anticipate dall'AGI – che nel 2019 ha diviso la cella nel carcere di Paliano (destinato ai collaboratori di giustizia) con Emanuele Mancuso, rampollo dell’omonimo clan della ‘ndrangheta di Limbadi e Nicotera, nel Vibonese, che dal giugno del 2018 ha deciso pure lui di “saltare il fosso” e raccontare le sue verità agli inquirenti.
Proprio da Emanuele Mancuso (i cui verbali sono però ancora in parte coperti da segreto investigativo), Antonio Cossidente ha raccontato al pm della Dda, Annamaria Frustaci, di aver appreso alcuni particolari sulla tragica scomparsa di Maria Chindamo, l’imprenditrice e commercialista di Laureana di Borrello (Reggio Calabria) aggredita e fatta sparire la mattina del 6 maggio 2016 dinanzi al cancello della sua tenuta agricola di Limbadi, nel Vibonese.
Secondo Cossidente (che riporta i racconti di Emanuele Mancuso), dietro la scomparsa di Maria Chindamo ci sarebbe Salvatore Ascone, detto “Pinnolaro”, ritenuto vicino al clan Mancuso - arrestato per la manomissione delle telecamere della sua abitazione che potevano riprendere l’aggressione alla donna, ma scarcerato dal Tribunale del Riesame – che avrebbe voluto così punire la donna per il suo rifiuto a cedere i propri terreni.
“Emanuele Mancuso – continua il verbale di Cossidente – mi disse anche che in virtù di questo rifiuto della Chindamo a cedere le proprietà, Pinnolaro l’ha fatta scomparire, ben sapendo che, se le fosse successo qualcosa la responsabilità sarebbe ricaduta sulla famiglia del marito della donna, poiché il marito o l’ex marito dopo che si erano lasciati si era suicidato. Quindi questo Pinnolaro – spiega Cossidente riportando le confidenze ricevute da Emanuele Mancuso – sapendo delle vicende familiari della donna, sarebbe stato lui l’artefice della vicenda per entrare in possesso dei terreni e poi far ricadere la responsabilità sulla famiglia del marito in modo da entrare in possesso di quei terreni”.
Nell’immediatezza della scomparsa, avendo i carabinieri rinvenuto solo l’auto di Maria Chindamo dinanzi al cancello dell’azienda agricola con lo sportello aperto ed evidenti macchie di sangue sparse intorno (segno evidente di un’aggressione), l’allora procuratore di Vibo, Mario Spagnuolo, ed il pm Concettina Iannazzo avevano fatto perquisire dai carabinieri – con l’aiuto anche dei cani molecolari giunti dalla questura di Palermo – un’azienda agricola a Rosarno di proprietà dei familiari del marito di Maria Chindamo (Ferdinando Pontoriero), suicidatosi il 6 maggio 2015 dopo aver avviato le pratiche di separazione dalla moglie.
Le ricerche, estese pure ad altri terreni, non hanno però dato sinora alcun esito. La scomparsa di Maria Chindamo ha avuto in ogni caso sin da subito vasta eco nazionale e diverse sono state le manifestazioni di vicinanza alla famiglia che, specie con il fratello della donna, Vincenzo Chindamo, non ha mai smesso di chiedere verità e giustizia per Maria.
Per il gip del Tribunale di Vibo Valentia che aveva firmato l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Salvatore Ascone, la scomparsa di Maria Chindamo è stata “una brutale esecuzione, organizzata con un agguato in piena regola e pur non essendo un omicidio mafioso ma inquadrabile in una questione privata da approfondirsi nella sfera strettamente personale o in quella della sua attività commerciale”, non aveva escluso che l’esecuzione materiale sia “stata compiuta da persone avvezze a tali azioni, come ve ne sono – aveva annotato il gip di Vibo - negli ambienti della criminalità locale”.
Il caso Chindamo, da circa un anno, è finito sul tavolo della Direzione distrettuale antimafia guidata da Nicola Gratteri che, alla luce delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Antonio Cossidente ed Emanuele Mancuso, indaga su un coinvolgimento nel delitto da parte della criminalità organizzata.