AGI - Lo ricorderemo così negli anni a venire, e probabilmente anche nei libri di storia: il 2020 è senza dubbio l’anno del Covid, uno di quegli anni che diventano spartiacque, come il 1914, il 1945 o il 1989.
Eppure gli italiani erano andati a dormire tranquilli la notte di giovedì 20 febbraio. Da settimane il numero totale dei casi di coronavirus nella penisola era fermo a tre, e tutti importati. I controlli a tappeto negli aeroporti e la chiusura dei voli dalla Cina, dove peraltro i contagi erano già in netto calo, lasciavano pensare che il peggio fosse passato. Solo che, mentre sorvegliavamo la porta di casa ben armati, alle nostre spalle il virus entrava dalla finestra, e nel posto meno prevedibile.
“Ho pensato all’impensabile”, dirà la dottoressa che ha intuito per prima. L’Italia entra ufficialmente nell’emergenza coronavirus scoprendo attonita che c’è un focolaio a Codogno, operoso paese del Lodigiano. Il caso del paziente 1, Mattia, 38enne sportivo e dinamico, finito in terapia intensiva dopo aver contagiato la moglie incinta e un amico inizia subito a mettere in discussione le certezze che virologi, epidemiologi ed esperti vari avevano per settimane divulgato.
Soprattutto due, le più importanti: il virus non risparmia i più giovani, anche in forma grave, e si propaga molto di più attraverso gli asintomatici che i sintomatici, se non altro per una questione numerica. L’avanguardia aggressiva e letale del virus, quella che porta alle gravi polmoniti interstiziali bilaterali, da sola non riuscirebbe infatti ad avere un tasso di contagiosità così elevato: si avvale di nutrite retrovie, composte di migliaia e migliaia di contagiati asintomatici o con pochissimi sintomi, proprio come Mattia all'inizio prima di aggravarsi.
Non lo sapevamo ancora, ma è l’inizio di una prima, drammatica ondata: i contagi crescono in misura esponenziale, si allargano in tutto il Nord, poi scendono al Sud, infine, con il primo caso in Val d’Aosta il 3 marzo, toccano tutte le Regioni italiane. E scattano le zone rosse: a Codogno e Vo’ Euganeo si chiude tutto, e inizia una fase di tracciatura dei possibili positivi con l’uso massiccio di tamponi. Il contagio viaggia al ritmo di decine poi centinaia di nuovi casi al giorno: dopo una settimana siamo già a 650 malati, il primo marzo superiamo quota mille.
Mentre i morti aumentano, e le terapie intensive vanno in sofferenza. Scatta la fase 2: le “zone arancioni” in Lombardia e Veneto, dove vengono chiuse le scuole. Il 4 marzo il Governo annuncia la chiusura di scuole e università su tutto il territorio nazionale, per due settimane, chiusura poi prorogata fino a fine primavera. L’8 marzo la situazione si profila molto grave: i contagiati sono già 4.600, centinaia i morti, gli ospedali lombardi vanno in sofferenza, anche perché le statistiche sono choc: il tasso di ricovero in terapia intensiva è più alto della Cina, e soprattutto il tasso di letalità, che viaggia sempre ben oltre il 2-3% cinese.
È la settimana che porta alla decisione storica annunciata dal premier Conte in un drammatico discorso tv: è l’11 marzo, il giorno del decreto “Io resto a casa”: l’epidemia cresce troppo, “non c’è più tempo”, avverte Conte, e tutta l’Italia diventa zona rossa. Chiusi negozi e locali (stretta poi rafforzata in un nuovo decreto), vietato uscire di casa se non per motivi essenziali, controlli sul territorio. La parola d’ordine è distanziamento sociale: “Distanti ma uniti”. Vengono sospese le comuni attività commerciali al dettaglio, i servizi di ristorazione, sono vietati gli assembramenti di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico.
Per spostarsi serve un’autocertificazione, ma saranno decine di migliaia le denunce. Marzo e aprile sono i mesi del dolore, del calvario: iniziano con i canti ai balconi, i meme, gli “andrà tutto bene”, il rito del bollettino quotidiano delle 18 in Protezione Civile dove, però, i dati ancora non sono quelli attesi. E poi il dramma si fa epocale: mentre il contagio si diffonde in Europa e nel mondo e le borse crollano, gli italiani assistono alle immagini del Papa che a piedi, lungo via del Corso, si reca in un piccolo santuario mariano per chiedere la fine del flagello, ma anche a quelle del corteo di carri militari che portano via da Bergamo, città martire, decine e decine di bare per le quali non c’è più posto. Solo dopo molte settimane i contagi e soprattutto i decessi, arrivati a sfiorare i mille al giorno, calano sensibilmente. Così come le terapie intensive, arrivate a superare quota 4.000 ai primi di aprile, ben oltre la soglia di sopportazione di un sistema sanitario stremato.
Le misure funzionano, il resto lo fa il clima via via più mite. Dopo quasi due mesi di lockdown totale, a maggio scatta la fase 2, seguita dalla fase 3. Tra giugno e luglio, è chiaro a tutti che la prima ondata è finita. Ha lasciato dietro di sé 35mila morti, e non tutti “anziani con patologie” come recita il sempre più stanco rituale del bollettino. Muoiono i giovani, i sani, e muoiono i medici, più di 170 vittime. Ma d’estate le cose sono decisamente migliori: i decessi sono poche unità al giorno, i casi quotidiani scendono dal picco di 6.000 a poco più di un centinaio. Intere aree del paese sono Covid-free: praticamente tutto il centrosud.
È il periodo della grande tregua, e di qualche rilassatezza di troppo: il periodo del Billionaire, dei contagi dei giovani ‘pariolini’ convenuti in Sardegna, del 'Non ce n'è Coviddi". E la grande domanda è: la seconda ondata ci sarà o no? Ci sarà. Come si temeva, il virus respiratorio più letale del secolo si comporta come tutti i virus respiratori, influenza in primis, e con i primi freddi riparte. A settembre i 100 casi giornalieri diventano 500, poi si supera di nuovo quota mille, e a ottobre si va rapidamente oltre il picco della prima ondata, 6.000 casi.
La curva si impenna: il picco (per ora) della seconda ondata arriva a metà novembre, con ben 40 mila casi in un solo giorno. La storia è già vista, e nessuno più ostenta striscioni ottimistici: salgono le terapie intensive, tornano ad aumentare drammaticamente i decessi, di nuovo verso i mille al giorno. Fermi a 35mila per mesi, diventano 40 mila in poche settimane, poi il 24 novembre superano quota 50 mila, e l’11 dicembre quota 60 mila. Oggi sono oltre 70 mila. Ma non è più tempo di lockdown totali: non che non servirebbero, ripetono molti scienziati. Si tenta la strada dei tre “colori”: il 3 novembre si introduce il nuovo sistema che, tramite 21 indicatori tra cui l’ormai celebre indice Rt, stabilisce i livelli di rischio delle singole regioni e le colloca in zona gialla, arancione o rossa, con misure restrittive di diversa portata.
E anche stavolta, la chiusura funziona: specie le regioni diventate “rosse”, come Lombardia e Piemonte, scendono rapidamente. Come previsto dal Dpcm, nel giro di qualche settimana con il miglioramento dei dati (i casi scendono da 40mila a 20mila al giorno, oggi siamo stabilmente intorno ai 10-15mila) le restrizioni si allentano. E puntualmente la curva non scende più, e si inizia a intravedere un pericoloso altopiano su quote ancora troppo elevate per un tracciamento saltato di fatto già a fine settembre, ben prima del previsto.
Scatta allora il Dpcm Natale, il 3 dicembre, l’ultimo finora della lunga sequela (sono 22 i decreti del Presidente del Consiglio per fronteggiare l’emergenza, una media di due al mese). Si torna alla zona rossa per tutti nei giorni delle feste e quelli contigui, a quella arancione gli altri giorni. E ora torna la solita domanda: ci sarà una terza ondata?
Ma il regalo di fine anno è il vaccino: approvato in anticipo dall’Ema il 21 dicembre quello Pfizer (e in attesa di AstraZeneca e degli altri, che arriveranno in qualche caso con ritardo), la somministrazione è partita in tutta Europa, Italia compresa. Con l’inevitabile corollario che ci accompagnerà in questi mesi sui ritardi, le difficoltà logistiche, gli intoppi di quella che sarà la più grande campagna vaccinale della storia.
Cala il sipario sul 2020, insomma, ma non sulla lotta al Covid. Restano impressioni sparse. Le liti tra i virologi, per esempio, condite da clamorose cantonate: il Ricciardi di inizio epidemia che sosteneva che “le mascherine servono solo ai malati” e “i tamponi si fanno solo ai sintomatici”, sulla scorta di traballanti indicazioni Oms presto travolte dai fatti. La Gismondo secondo cui “è poco più di una semplice influenza”. Lo Zangrillo estivo con il suo “il virus è clinicamente morto”, frase che rimarrà indelebile. E poi i vari “la seconda ondata non ci sarà” di Bassetti, per non parlare delle sottovalutazioni di Tarro.
Errori in cui sono incorsi ovviamente anche i politici: quelli esteri, quando a fine febbraio l’italia fu travolta e non capirono subito che eravamo solo i primi. E i nostri, in maniera speculare, quando alla fine dell’estate, con la seconda ondata che si affacciava minacciosa in Spagna, in Francia, in Gran Bretagna, esaltavano i risultati del “modello Italia” e i suoi bassi numeri, prima della puntuale impennata. E ancora le false speranze sui vari farmaci-toccasana, dall’eparina all'idrossiclorochina, dal fantomatico Avigan al plasma.
Un grande caos mediatico, in cui i social come sempre hanno fatto la parte del leone. Alla fine di questo anno terribile, siamo sospesi tra terrore e speranza, tra un inverno ancora tutto da attraversare e le immagini dei primi, sorridenti, italiani vaccinati. Tra le tante cose che abbiamo imparato, del virus e forse un po’ anche di noi stessi, una cosa però ancora non sappiamo: quando finirà.