AGI - Ci sono un romeno, un marocchino e un italiano che hanno trovato riparo sotto i portici che costeggiano piazza Piccapietra, nel centro di Genova. C’è Mario, poco più in là, che sfrutta l’aria calda che fuoriesce dalle grate di un parcheggio di fronte ai bidoni della spazzatura, in mezzo ai topi che si spartiscono la spazzatura, per superare il freddo di questa notte di fine novembre, sferzata dal vento da nord.
C’è Edus che, oltre alle coperte, ha ricavato una specie di “igloo” di cellophane e ci si è accoccolato dentro, incastrato in una nicchia tra due palazzi, in una traversa di via XII Ottobre. C’è Violeta, nascosta dietro alla sua valigia e sotto una grande coperta, rannicchiata di fronte alla vetrata di una banca.
Sono solo alcuni dei 140 senza dimora seguiti dalla Comunità di Sant’Egidio di Genova che, anche stavolta, hanno ricevuto un pasto caldo consegnato dai volontari. Agi ha seguito un gruppo di loro, guidato da Maurizio Scala, chiamato “Momo” non solo dagli altri volontari, ma anche dagli amici che vivono sulla strada.
E’ lui a raccontare come la pandemia da Covid abbia trasformato in parte il volontariato, a partire dalla preparazione dei pacchi con i pasti da consegnare ai senzatetto: “Un tempo iniziavamo alle 18.30 e in poco tempo finivamo. Ora iniziamo alle 16, lo facciamo in gruppi piccoli, ci diamo il cambio e, ad ogni passaggio, sanifichiamo. Anche la biancheria, le coperte che consegnamo vengono sanificate. Oggi abbiamo bisogno di più gente e di più tempo”.
Al momento sono circa un migliaio i volontari della Comunità genovese. Ognuno ha ruoli diversi. Chi consegna i pacchi parte poco dopo le 20, dalla sede centrale di Sant’Egidio in piazza dell’Annunziata. I volontari si sparpagliano per la città: mascherine indossate, nessun assembramento e ognuno porta con sé il pacco con panini e acqua. Si sa esattamente dove andare perché i luoghi scelti dai senza dimora sono sempre gli stessi.
Con Momo restiamo in centro, nella zona di piazza Piccapietra, alle spalle della celebre piazza De Ferrari, a due passi dalla via dello shopping genovese - via XX Settembre - e dalle prestigiose via Roma e via XXV aprile, con le vetrine dei marchi di lusso. Consegnare il pasto caldo non è un gesto fine a sé stesso: è un rito.
“Non solo diamo loro la cena - spiega - Ma controlliamo anche se hanno coperte a sufficienza, se sono ubriachi o meno: se sei ubriaco d’inverno e ti dimentichi di metterti la coperta, rischi di non sopravvivere alla notte, o di ammalarti gravemente. Controlliamo se la coperta è bagnata, se l’hanno rubata. Non solo: quando sono soli, il rischio è maggiore, perché se si è in due o tre, e uno del gruppo è in difficoltà, gli altri chiamano aiuto. Verifichiamo che non si siano messi in un posto ventoso o dove rischia di piovere. Ma soprattutto, stabiliamo con loro un rapporto umano”.
Momo arriva da Matteo, lo guarda negli occhi, lo chiama per nome come un vecchio amico, “perché quando passiamo e diamo l’elemosina, la cosa che ci imbarazza è guardarli in faccia. Invece andare a vedere dove dormono, dove vivono, conoscere il loro nome, la loro storia è importante - spiega il volontario - Chiamare la gente per nome è fondamentale: tanti di loro sono soli, nessuno conosce il loro nome e nessuno li chiama. Noi siamo gli unici a farlo: il nome è tutto, ci identifica, ci dà un posto”.
E Matteo, che sta sotto i portici di Piccapietra insieme ai suoi compagni, sembra accendersi all’arrivo di Momo. Gli racconta del suo stato di salute, si sfoga un po’. I due non si toccano e sembrano soffrire entrambi di questo: “Toccarli è molto importante - spiega infatti il volontario della Sant’Egidio - Un tempo ci davamo la mano, ci abbracciavamo, facevamo finta di picchiarci come i ragazzini. Con un semplice tocco dichiaravamo di avere un legame, di non avere paura l’uno dell’altro. E’ quel che manca di più - sottolinea - E’ una distanza che sta segnando il nostro rapporto con loro e che sta rendendo i fragili ancora più fragili”.
Basta pensare a Mario, con problemi di alcolismo: accanto ha il suo cartone di vino e non riesce ad alzarsi dal giaciglio che si è ricavato sulle grate di un parcheggio. Riconosce Momo e lo saluta: gli dice che gli fanno male le gambe, chiede delle sigarette, parla a fatica, ma sorride un pochino al suo “angelo”. Poco più in là un ragazzo urla “Siete quelli che consegnano i panini?”.
E’ nuovo, i volontari non lo conoscono. Momo gli si avvicina, gli dice che li hanno finiti per stasera e torna amareggiato: “Non ne avevamo più e quel ragazzo aveva proprio fame” mi dice. Il giro dura circa un’ora e mezza: nel frattempo si incrociano mille storie diverse, “vite partite sbagliate” racconta Momo che da dieci anni segue queste persone, ma “anche di enormi solitudini”, tipo Angelo che è stato 35 anni in carcere, “35 anni in cui nessuno è andato a trovarlo, nessuno” e che nel volontario che stasera ci guida in questo mondo sommerso dice di aver trovato “un fratello”.
Il covid nasconde i sorrisi amichevoli dietro le mascherine e non permette più l’umanità, il contatto, l’abbraccio che in queste fredde notti di quasi inverno scalderebbe più di qualunque coperta. Restano gli occhi dei volontari e di chi ha bisogno che si incrociano alla stessa altezza, resta la solerzia con cui - pur con mille ostacoli - si continua a dare un senso di prossimità, anche ai margini della società.
I pasti alla mensa raddoppiati da febbraio
Ma non ci sono solo i clochard. Pasti alla mensa raddoppiati da febbraio, più che raddoppiato il numero delle famiglie a cui si consegna il pacco alimentare non più solo una, ma due volte al mese. Ma soprattutto un 40% di “nuovi” poveri che bussano alla porta di chi può tender loro la mano perché “affamati, con la dignità ferita e per la prima volta costretti a chiedere aiuto”.
Lo racconta all’Agi Sergio Casali, della comunità di Sant’Egidio di Genova con il quale abbiamo iniziato a contare i danni sociali della pandemia da Covid nel capoluogo ligure. Il virus non ha “solo” falcidiato quasi un’intera generazione, quella dei nostri nonni, non ha “solo” messo in crisi il sistema sanitario del nostro Paese, ma ha infierito sull’economia, sul lavoro, mandando intere famiglie sul lastrico, tagliando le gambe a chi aveva iniziato a intraprendere un percorso di fuoriuscita dai circuiti della solidarietà ed emarginando ancor di più gli emarginati.
“La mensa di piazza Santa Sabina, attiva da 5 anni e che di norma dà da mangiare a 600-700 persone, a febbraio 2019 aveva preparato 5300 pasti - spiega Casali - Dopo un fermo obbligato nel lockdown, siamo arrivati ad un picco, ad agosto 2020, di 18mila pasti. Lì ci siamo accorti che tornavano da noi persone fuoriuscite dai circuiti della solidarietà e che arrivava gente che non ne aveva mai fatto parte. La mensa è cambiata però a causa della pandemia: non è più il luogo dove si sosta, si parla. Si prende il pasto caldo e lo si consuma a casa, se hai una casa, o in un angolo della strada se non ce l’hai”.
Dopo il picco di agosto, oggi ci si è assestati su una cifra tra gli 11 e i 12 mila pasti al mese, il doppio del mese di febbraio. Si apre 3 giorni a settimana perché di più non si riesce, considerando che il costo annuale della mensa è 100mila euro.
Con la pandemia sono aumentati anche i centri di distribuzione alimentare: da 3 si è passati ad 8 per evitare gli spostamenti delle persone e dei volontari. Sono dislocati non solo in centro, ma anche nelle periferie, da Begato a Bolzaneto, dal Cep a Pegli, in Valpolcevera, a Cornigliano e a Sampierdarena.
A domicilio si arriva ad almeno 300 distribuzioni tra anziani e persone con fragilità, oltre al sostegno alle famiglie in quarantena, cui si cerca anche di buttare la spazzatura o consegnare materiale didattico ai figli. Le cifre possono solo provare a rendere l’idea di quello che è diventato un bisogno essenziale, ovvero mangiare, spiega Casali: “A me non era mai capitato di vedere la fame vera in città, ovvero gente che abita in un appartamento e non ha i soldi per nutrirsi".
"Due nostre volontarie universitarie - racconta - durante il lockdown hanno portato la spesa ad un’anziana residente in una casa popolare al Cep di Prà e la signora è scoppiata a piangere dicendo loro ‘grazie: sono due giorni che non mangiavo niente’.
Non solo: sempre durante il lockdown abbiamo aumentato la distribuzione alimentare nei quartieri perché, ad esempio, per i bimbi la chiusura della scuola è stata un problema: quelli delle primarie non potevano mangiare alla mensa e, per tanti, quello era l’unico pasto equilibrato e regolare della giornata. Per questo abbiamo deciso di non dare solo il classico pacco con pasta e sugo: alle famiglie con bambini cercavamo di dare frutta, verdura, carne, altrimenti rischiavano di andare avanti con pasta all’olio tutti gli ultimi 10 giorni del mese”.
Al centro Genti di Pace, prosegue ancora Casali, “siamo passati da circa 1050 nuclei familiari aiutati a 2500 attuali, un numero più che raddoppiato. Il pacco prima si dava una volta al mese, ora 2. Dell’aumento riscontrato di richieste d’aiuto, il 40% sono perone “nuove”, mai comparse prima nelle nostre liste o nel circuito della solidarietà che non fa riferimento solo a Sant’Egidio.
Molti arrivavano da noi, un po’ umiliati nel dover chiedere e sono spaesati: domandano “Come si fa? c’è un parroco? a chi devo chiedere?”. I pacchi che vengono consegnati due volte al mese sono complessivamente 5000, per almeno 5 tonnellate di cibo distribuito. In parte è cibo donato, in parte è frutto della colletta alimentare portata avanti dai volontari di Sant’Egidio, in parte sono donazioni in denaro con cui si acquistano generi alimentari. Poi ci sono molteplici forme di solidarietà, come “una polleria genovese che ci prepara circa 150 polli da donare alla gente tutte le settimane - racconta ancora Casali - O un ristorante che durante tutto il lockdown ha tenuto aperto, con i suoi dipendenti, pagando di tasca sua, e ci preparava tutte le sere pasti per i senza dimora: primi, secondi, per 150 persone”.
A finire in ginocchio oggi sono persone che magari avevano avviato negozi, che stavano per partire e si sono trovate senza niente: emblematica è la storia di un’estetista del centro città, racconta Casali: “Stava ristrutturando il locale, ci aveva investito dei soldi e si è trovata in difficoltà nel pieno lockdown perché non è mai potuta partire".
Molti giovani rimasti disoccupati sono tornati dai genitori
Oppure pensionati e dipendenti pubblici, con stipendi dignitosi, che si sono trovati di nuovo i figli a casa perché disoccupati e ci confessano ‘mio figlio non verrà mai qui a chiedere, ma noi con uno stipendio non arriviamo a fine mese: prendiamo il vostro pacco’.
Tante storie di dignità ferita - prosegue il volontario della Sant’Egidio - Una signora disoccupata, lasciata dal marito durante il lockdown, con due figli, invece non ci ha chiesto nulla, ma solo di darle qualcosa da fare, di farla sentire utile. In queste storie di naufragi ci sono muratori, badanti, donne delle pulizie, lavoratori precari che si sono trovati senza niente.
La mamma di un ragazzo disabile, ad esempio, lavorava come cuoca e ha perso il lavoro per colpa della pandemia. E’ venuta da noi in lacrime a dire che doveva chiedere aiuto e non avrebbe voluto farlo”.
Ai nuovi poveri si aggiungono gli almeno 2mila anziani seguiti dalla Sant’Egidio a Genova, sia perché in stato di povertà materiale, sia per solitudine, condizione che si è aggravata col virus. E poi i 140 senza dimora, ancor più emarginati rispetto all’era pre-Covid. Di fronte ad una domanda che cresce, anche il volontariato ha bisogno di maggior sostegno: “Oltre un centinaio di ragazzi, tra liceali e under 35, da marzo ad oggi si sono avvicinati alla nostra Comunità -racconta Casali - Colpa del ciclo di studi interrotto o modificato a causa della DAD, colpa dell’isolamento forzato, colpa dell’impossibilità di viaggiare, a molti sembrava di non essere più utili a niente. Hanno bussato alla nostra porta chiedendo semplicemente di farli sentire utili. Il nodo di questo tempo è che mancano parole di speranza: avere una mano tesa è un segno di speranza ed è questo il nostro obiettivo, anche in mezzo alla pandemia”.