AGI - L’appuntamento è di quelli a cui non si può mancare: ore nove nel cortile della scuola. “Rivedrai tutti i compagni che non vedi da dieci giorni, non sei contenta?”, “Sì, ma io non voglio fare il tampone”.
È difficile spiegare a una figlia di 5 anni cosa vuol dire fare il tampone. A casa ha ascoltato telefonate, discussioni tra i genitori ed ha capito benissimo di che si tratta. “Ma non è niente, l’ha fatto pure papà, sai? Si sente un piccolo solletico nel naso, niente di che, davvero niente rispetto alle punture”. “Sì però, io non voglio fare il tampone”.
Sono più di dieci giorni che la nostra piccola si trova a casa, non è potuta uscire per isolamento fiduciario, come lo hanno chiamato. Poi quasi al termine delle due settimane di isolamento la Asl si è decisa a comunicare all’istituto scolastico, un plesso di Roma dove sono presenti classi dalla scuola dell’infanzia fino alle elementari, che anche per le classi della materna si imponeva la quarantena, dal 2 al 6 novembre, cinque giorni in tutto.
“Forse hanno trovato altri positivi oltre alla prima suora, dicono che un’altra suora è risultata positiva. Forse anche una delle insegnanti che ha avuto contatti con le classi dell’infanzia”. Pare, si dice, si narra. Nulla di certo nelle discussioni tra i genitori. L’unica cosa certa è il tampone per tutti i piccolini ordinato dalla Asl.
Il cortile è quello dei giochi dove nelle pause i bimbi fanno baccano, si divertono. Un clima sereno ci accoglie al cancello, i primi bimbi sono già in fila con i genitori, qualcuno gioca avendo ritrovato il compagno di classe che non vedeva da tempo. In fondo al piazzale il personale della Asl è già al lavoro, saranno tre o quattro, in tutto. Hanno scatoloni che hanno poggiato su alcuni banchi messi appositamente nel cortile. Le infermiere indossano il camice, le mascherine, i guanti e una protezione di plastica per gli occhi.
Non so perché ma prima di muovermi da casa avevo pensato che visto che si trattava di bambini della materna gli infermieri avrebbero praticato i tamponi con una particolare procedura, pensavo addirittura a dei clown, qualche pupazzetto, una specie di Peppa Pig che si avvicinava con il cotton fioc e qualche battuta da circo. Niente di tutto questo. La situazione si fa subito cupa: l’infermiera inizia la chiama in ordine alfabetico. Tocca a un bambino che quando capisce che deve sedersi sulla sedia per farsi mettere quel lungo cotton fioc nel naso inizia ad urlare. Il padre lo avvicina al petto, gli blocca le mani, poi le gambe.
Il piccolo si dimena, grida. L’infermiera sventola in aria quel bastoncino che deve riuscire a inserire nel naso del piccolo, ma non ci riesce. La situazione è sempre più di panico, anche per le infermiere il lavoro non è così semplice, rischiano di prendere un occhio del piccolo. Ora tutti i bimbi in fila iniziano a capire cosa sono venuti a fare a scuola questa mattina. Le urla del bambino non aiutano a mantenere la calma fra tutti gli altri, ma adesso anche le facce dei genitori si sono incupite.
C’è, invece, qualche altro bambino che continua a correre nel cortile e sembra ignorare del tutto quello che sta accadendo. “Ma non potevano mettere un separé, un paravento, invece di far vedere la scena ai bambini che aspettano il proprio turno?” , dice una mamma, e ancora “non è possibile fare una cosa del genere”.
Intanto il padre ancora alle prese con il tampone del proprio piccoletto si ferma, cerca di fare un discorso convincente al bimbo, ma niente. Alla fine il genitore riesce a bloccare bene la testa del piccolo e la prima narice è fatta. Lui scalcia ancora e urla ma anche la seconda narice viene tamponata. Avanti un altro. Per i risultati c’è poco da attendere, dopo 15 minuti ecco che uno degli addetti della Asl grida: “negativo”. “Ma funziona così? E la privacy?” chiede uno dei genitori, ma a chi interessa a questo punto della privacy quando si è ancora alle prese con l’attività persuasiva verso il proprio figlio.
“La pediatra non ha voluto visitare a studio l’altra mia figlia, di un anno e mezzo che è a casa, perché ha la tosse e un po’ di febbre – si lamenta una delle mamme – signora, mi ha detto la dottoressa, se la porta qui ed ha il Covid che faccio? Chiudo lo studio? Prima di poterla visitarla deve fare il tampone?”. “Ma non dovevano aiutare anche loro il sistema sanitario praticando i tamponi negli studi? Andiamo bene”, ci si lamenta in fila. “E se la bimba ha una bronchite grave? Nessuno la visita senza tampone?”, commenta qualcun altro.
Le scene si susseguono una uguale all’altra. C’è anche qualche bambino che appare più coraggioso, in meno di un minuto il tampone è fatto. Sembra immobilizzato dalla tensione e dalla paura, una specie di metodo del bacarozzo: rimanere fermi e immobili, ma almeno la procedura è più veloce. Qualche altro rimane in crisi da pianto anche dopo il tampone, nonostante aver verificato che si tratta soltanto di un fastidio nel naso, nessun dolore. Una mamma lo stringe e lo coccola ancora per un altro quarto d’ora.
“Tu non guardare, chiudi gli occhi e vedrai che il tampone è finito in pochi secondi”. È il consiglio migliore che mi viene in mente per tranquillizzare la mia piccolina. Poi arriva finalmente il suo turno e il solito verdetto “negativo” urlato ai quattro venti. “Sono stata brava, non ho pianto hai visto?”. “Sì, bravissima adesso andiamo a comprare un regalo”.