(AGI) - Un cantante di strada intona “La ballata del Miché” dell’immancabile De André, accanto al dehors di un locale al porto Antico di Genova: la sua voce si sente chiara e profonda, nonostante lo spazio sia molto ampio e i locali siano aperti. Nessun brusio o chiacchiericcio è tanto forte da sovrastare le sue note, perché nei locali non c’è il classico pienone da sabato sera. Ai tavoli dei primi tre ristoranti che si incontrano nell’area più “turistica” di Genova, sono sedute intorno alle 21 non più di 70 persone in tutto.
E’ il primo weekend con le zone “coprifuoco” di Genova attive. Sono quattro: due in centro storico, una nell’area di Certosa e un’altra in quella di Sampierdarena. In queste aree, il Comune ha ordinato lo stop alla circolazione delle persone dalle 21 sino alle 6 del mattino, a meno che queste non debbano raggiungere un locale, per stare al suo interno, o un’abitazione, con l'obiettivo di contenere il contagio da coronavirus. Alle spalle del “turistico” porto Antico si apre il dedalo di vicoli: è lì che l’ordinanza ha già cambiato in poche ore il volto della “movida” cittadina. Due mappe delimitano le aree in cui si vieta il classico “viavai” tra locali, tipico dei fine settimana, col bicchiere in mano e le passeggiate in gruppo tra i carruggi della città vecchia. Da queste aree sono escluse la centrale piazza delle Erbe, salita del Prione e via di Ravecca; vengono incluse invece le vicine salita Pollaiuoli e via San Donato. Ma i confini vengono percepiti a stento e il messaggio che passa, dicono ad AGI gli esercenti è che “in centro storico non si può più entrare di sera”.
"Ci stavamo riprendendo e ora ci sentiamo abbandonati"
"Il pericolo - aggiungono unanimemente ristoratori e titolari di bar - è tornare a tanti anni fa, quando il centro storico era vuoto, spento e meno vivibile. Ci stavamo riprendendo e ora ci sentiamo abbandonati. Non solo noi commercianti, ma anche i residenti. Veniamo additati come problema, ma se lo siamo occorrerebbe trovare anche la soluzione e la ghettizzazione non lo è”. Percorrendo le stradine del centro storico il cambiamento è percepibile e radicale. Nei vicoli dove di sabato sera si sgomitava per passare, non sosta nessuno. Per strada si gira rigorosamente in mascherina, quasi furtivamente e, a controllare che le misure vengano rispettate, ci sono numerose squadre di agenti della polizia locale. Ogni locale, almeno quelli coraggiosamente rimasti con le serrande alzate, ha affisso al suo esterno diversi cartelli: dal “ingresso consentito solo indossando la mascherina”, al “se amate l’Italia rispettate le distanze”, fino al numero delle persone massime consentite all’interno dell’esercizio. Ed è davvero difficile trovare qualcuno seduto dentro un locale: complice la tregua dalla pioggia di queste giornate di ottobre e la temperatura ancora abbastanza mite, diversi avventori scelgono i dehors. Lì si consumano aperitivi, cene e qualche cocktail, senza assembramenti, senza pienoni, ma anche senza quell'atmosfera festosa tipica del weekend.
“La sensazione è come se stessimo facendo qualcosa di male”, dice ad AGI Chiara, una studentessa di Architettura che, oltre a frequentarli la sera, vive nei vicoli. “Gira molta polizia - aggiunge - passa accanto ai locali e controlla se si è correttamente seduti, se si rispettano le distanze, se si indossa la mascherina entrando nel locale. Insomma, addio spensieratezza!”. “Quel che regna è l’incertezza perché le misure cambiano ogni settimana e non si riesce a capire come si arriverà a fine anno: io oggi ho preparato 10 coperti, mentre un anno fa erano 45 di media al sabato. Posso andare avanti così?” lamenta invece un ristoratore. E se al momento il coprifuoco nelle aree considerate “ad alto rischio” di diffusione del virus per i locali scatta a mezzanotte, il rischio è questa soglia oraria possa scendere ulteriormente fino alle 18 con il nuovo Dpcm, penalizzando fortemente il comparto della ristorazione e lasciando ulteriormente perplessi i cittadini: “Non ha senso una misura del genere, perché il virus non ha orario - racconta ad AGI Serena, 23 anni - lo vediamo sul trasporto pubblico. Io vado sempre sul bus e la situazione è ben peggiore rispetto a prendere un bicchiere con gli amici”.
Tornare in lockdown per un mese? Sarebbe folle
Che la strada più giusta sia tornare in lockdown per un mese? “Sarebbe folle - sostiene un’altra ragazza ventenne e insegnante di judo - Ci sono persone che hanno bisogno di portare lo stipendio a casa. Locali, palestre, teatri, cinema, sono le strutture che più stanno rispettando le norme, proprio perché questo permette loro di rimanere in piedi. Cosa che non accade sui mezzi pubblici, sovraffollati. Chiudere quelle realtà sarebbe un’enorme ingiustizia”. Intanto, a 10 minuti dalla mezzanotte, parte una strana colonna sonora in città, che poco ha a che fare con le note deandreiane del busker del Porto Antico: è il rumore di sedie che si spostano, dei commiati veloci tra amici, di ristoratori e gestori dei locali che sparecchiano, riordinano tavoli e sedie dei dehors, invitano gli ultimi clienti ad alzarsi e, infine, abbassano le saracinesche. Piazza delle Erbe si svuota, così fanno i vicoli di tutto il centro storico. Resta l’eco di passi di chi torna a casa, come fossero moderne Cenerentola, guardate a vista - e talvolta fermate - non da premurose Fate madrine, ma da solerti agenti della Municipale.