AGI - Sulla modalità di diffusione del Covid-19 nella popolazione si scontrano due teorie: quella dei superdiffusori, contagiati capaci di trasmettere il virus a numerosi individui con i quali vengono in contatto; e quella della diffusione a cascata, da un positivo all’altro. Una differenza sulla quale va modulato un diverso tipo di intervento al fine di bloccare l’epidemia.
“Gli sforzi di contact tracing dovrebbero essere più orientati verso la ricerca di superdiffusori, perché identificare i cluster di infezione, quindi i focolai di diffusione, potrebbe aiutarci a gestire al meglio la situazione”. Spiega all’AGI Stefania Salmaso, epidemiologa indipendente, ex dirigente di ricerca presso l’Istituto Superiore di Sanità, sottolineando l’importanza del ruolo di questi grandi diffusori e alla luce del recente studio pubblicato sulla rivista Science, secondo cui solo una piccola percentuale dei positivi è responsabile della stragrande maggioranza dei casi.
“Sapevamo già che le malattie infettive si muovono per catene di trasmissione non omogenee né uniformi – aggiunge l’esperta – in questi ambiti vige la regola dell’80-20, per cui l’80 per cento dei nuovi infetti viene generato dal 20 per cento dei casi precedenti. Anche se non siamo in grado di stabilire con precisione il motivo per cui si verifichi tale distribuzione, alcuni individui riescono a contagiare moltissime persone”.
L’epidemiologa afferma che tra le concause che giocano un ruolo chiave nel favorire la diffusione sembrano rientrare fattori come la permanenza in ambienti poco ventilati, l’affollamento e il contatto ravvicinato tra individui. “Ci sono casi emblematici – rileva Salmaso – come quello del gruppo religioso in Corea in cui un solo individuo è stato in grado di contagiare tutti gli altri. Questi fenomeni suggeriscono che l’indice Rt, che misura la contagiosità di una malattia infettiva, è sicuramente un indicatore importante, ma rappresenta un valore medio. Invece in pratica esiste una grande variabilità e ci sono tanti fattori che dobbiamo considerare nello studio delle probabilità di diffusione”.
L’esperta precisa che, in termini operativi, questi dati indicano l’importanza di identificare precocemente i focolai epidemici (i cluster di infezione) per individuare le occasioni a maggior rischio. “Potrebbe essere necessario orientare anche alla ricerca delle esposizioni le attività di rintraccio dei contatti – commenta la ricercatrice –. In Italia disponiamo di una serie di tecniche sofisticate, come la ricerca molecolare o PCR, le cui sensibilità e specificità consentono l’individuazione puntuale dei casi, ma nell’ottica di rintracciare i focolai di trasmissione potrebbero essere più efficaci esami rapidi, e ripetibili spesso, come i test salivari, che consentirebbero di identificare più rapidamente e facilmente gli infetti legati a una stessa esposizione”.
Salmaso suggerisce che la ricerca dei superdiffusori deve passare dall’indagine a ritroso sui contatti per stabilire se il caso identificato abbia avuto origine da un potenziale cluster. "Queste osservazioni – conclude – nascono in parte da informazioni già note, come la disomogeneità nelle catene di diffusione, ma anche da considerazioni che riguardano l’andamento della pandemia, in Italia come in altri paesi. Abbiamo osservato regioni e aree fortemente colpite, mentre in altre zone la diffusione sembrava molto meno significativa: tutto questo è difficilmente spiegabile, ma potrebbe essere un indizio della presenza di super spreader o superdiffusori”.
"I superdiffusori fanno parte di un fenomeno reale e assolutamente interessante dal punto di vista epidemiologico, ma non credo che i casi italiani siano dovuti a questi grandi diffusori con gli stessi numeri e le stesse caratteristiche riscontrati in altri ambienti”. Lo dice all'AGI Antonio Mastino, microbiologo associato all'Istituto di farmacologia traslazionale del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ift) e docente di Microbiologia presso l’Università di Messina, facendo riferimento allo studio pubblicato su Science dagli esperti del Center for Disease Dynamics, Economics and Policy di New Delhi, secondo cui circa l’8 per cento dei positivi potrebbe essere collegato a più del 60 per cento dei nuovi casi.
Mastino sottolinea che esiste una serie di concause legate alla diffusione del virus. “Questi studi sono associati alla popolazione a cui si fa riferimento e ai suoi specifici comportamenti sociali – precisa l’esperto – per cui è difficile trarre conclusioni di carattere generale. Sarebbe davvero interessante poter studiare nel dettaglio le catene di diffusione dall’inizio della pandemia, ma attualmente non credo che in Italia i superdiffusori possano essere stati la causa principale della forte diffusione a cui abbiamo assistito”.
“Ci sono stati sicuramente episodi significativi – aggiunge Mastino – in cui singoli individui sono stati in grado di contagiare molte persone, ma credo che la maggior parte delle infezioni sia dovuta a fenomeni di diffusione a cascata che rientrano nella normalità delle catene di diffusione”.