AGI - Pazienti che arrivano in studio dopo avere aggravato il loro disagio abusando di 'goccine' autoprescritte, giovani colpiti da ossessioni come l'eccesso di attività fisica con l'illusione di tenersi saldi in un mondo che non 'controllano' più, persone che manifestano disturbi innescati dal sentirsi dei potenziali 'untori'.
È la provincia di Bergamo che racconta all’AGI Gloria Volpato, la psicologa del ‘ricuci-amoci’, così ha intitolato una sua conferenza, nella parte d’Italia più sgretolata dal virus, a cui si è rivolta anche il Comitato Noi Denunceremo dei familiari delle vittime. Già dall’8 marzo, nel pieno della pandemia, ha cominciato con le dirette su Facebook a sostenere chi affrontava le conseguenze del Covid, attivando con la sua équipe un pronto intervento gratuito online. Ora tanti di loro stanno arrivando nel suo centro di psicoterapia.
"Persone che 'funzionano' ma non vivono più"
“C'è anzitutto chi vive una sindrome da stress post-traumatico, come i sanitari e le persone che sono state malate, hanno assistito e talvolta perso dei familiari senza poterli salutare. Ho tanti pazienti che lavorano in ambito sanitario e si consigliano l’un con l’altro le ‘goccine’ che prendono al posto della tisana alla sera. C’è un utilizzo del ‘fai da te’ quasi autorizzato dal Covid, senza un medico o uno psicologo che li segua. Ci sono anche persone che fanno altre professioni, con problemi gravi di insonnia che prendono psicofarmaci senza avere nessuna supervisione. A volte li prescrive il medico di base con la ricetta, solo che poi senza una lettura psicologica di quello che gli sta accadendo il paziente non è consapevole che si è creata una risposta ‘dissociativa’"
La psicologa usa una metafora. "Per capirci, è come se l’evento traumatico sia un alimento che la psiche non digerisce e che viene messo in un freezer. Uno va avanti con la sua vita, ma è una persona che funziona ma non vive. Sembra stare bene ma nel tempo può sviluppare sindromi più complesse come stati depressivi, ansia e attacchi panico che altro non sono che attacchi acuti di solitudine. Non avendo elaborato questo materiale ‘messo’ in freezer, la psiche mette in atto delle difese verso la realtà".
Per esempio, "si può rivivere il lutto nella perdita di un oggetto prezioso o la rabbia repressa può esplodere in una lite banale con un familiare". I rischi di questa 'rimozione' sono che "se non ho consapevolezza di queste reazioni a scoppio ritardato, ci si può giudicare, perdere autostima nei propri confronti e per trovare sollievo si può intraprendere la strada delle dipendenze che possono essere alimentari, da sostanze, gioco d'azzardo, affettive o di altro genere, fino al rischio di un abuso di psicofarmaci 'fai da te'”.
Poi, prosegue Volpato, c’è un danno psicologico “più sottotraccia perché relativo al clima e alle atmosfere sociali”, i cui costi non sono ancora quantificabili perché la situazione che li determina è ancora in corso. “Mi riferisco al cambiamento dello stile di vita iniziato col lockdown e non ancora finito che richiede continui adattamenti a individui, famiglie e bambini. Siamo dentro un’esperienza che non sappiano quanto durerà, alimentata dalle continue notizie di morti e contagiati che sarebbe ora di smettere di dare non trovandoci più in una fase acuta. Sono informazioni che vanno a inoculare una tensione continua a livello del corpo che va a rinforzare una visione pessimistica e catastrofica”.
La paura dell'altro nei soggetti già vulnerabili
Quello che già si vede negli studi di psicoterapia è il disagio legato alla perdita della qualità e dell’accessibilità delle relazioni nel mondo ‘prima’. E, in particolare, l’affiorare della “paura dell’altro”. “Per esempio la mamma che porta il bambino all’asilo e gli dice ‘non ti avvicinare agli altri bambini’ da’ un messaggio pericoloso perché ,seppur in buona fede, insegna a identificare il pericolo negli altri. La psicologia sociale, attraverso vari esperimenti, ci ha dimostrato che l'odio si propaga velocemente, come una sorta di infezione psichica. La storia ci ha dato più volte riscontri di questo. Non dimentichiamo che la stessa influenza spagnola ha preceduto i totalitarismi e le due guerre mondiali. Così, quasi senza accorgercene, stiamo rendendo fragile la generazione dei più giovani e gli effetti di tutto ciò avranno una gittata di lungo corso".
Su soggetti già vulnerabili, spiega Volpato, si osserva quella che il noto psicoanalista Luigi Zoja ha definito ‘paranoia soft’ in un libro che per primo descrisse le condizioni psicologiche della popolazione a New York dopo l'undici settembre.
“In queste persone si incrementa il senso di timore nei confronti di altri. Il messaggio che arriva è che quel mondo che c’era prima l’abbiamo perduto, non sappiamo più cosa è certo e di chi possiamo fidarci. Per funzionare bene noi dobbiamo poterci rilassare e fidare, perché la vicinanza sociale è una delle prime risposte che biologicamente mettiamo in atto quando abbiamo paura. Il fatto di potervi accedere ancor meno di prima del Covid mantiene le persone in una continua e sfiancante allerta che agisce come un virus latente che al primo stress, anche il più insignificante, può farci perdere l'equilibrio. Insomma c'è un overload psichico che non tutti siamo in grado di tollerare a lungo e quando i livelli di stress si dice che superano la nostra finestra di tolleranza, qualcosa dentro di noi si spezza creando quelle che in termini tecnici si chiamano dissociazioni che sono alla base di molti comportamenti che possiamo vivere come incomprensibili o estranei a noi come le perdite di controllo. Quando ce ne accorgiamo o ce lo fanno notare, proviamo un senso di disagio, ci vergogniamo e ci sentiamo isolati". Il rischio quindi è "di sostare in cortocircuiti psicologici il cui esito può essere in alcuni casi anche drammatico, come gesti di autolesionismo, suicidio, violenza. Dentro questa transizione ognuno si deve collocare e in un Paese una con bassa cultura psicologica come il nostro non è per nulla scontato".
"L'anestesia del lavoro nelle terre bergamasche"
Questo scenario viene declinato dalla psicologa nelle attitudini caratteriali locali: “Nelle nostre terre bergamasche una grande forma di anestesia è la iperattivazione del lavoro, tutti ci stiamo spostando su lavoro per tornare come prima, per rimuovere ciò che è stato il più velocemente possibile. Se da un lato è comprensibile, perché funziona come una sorta di riparazione, dall'altro lato, non basta per uscire dall' emergenza recuperare il denaro perso. Occorre ricostruirci, mettere insieme il nostro corpo che è il luogo che per primo si fa carico delle esperienze traumatiche attraverso le tensioni muscolare croniche che comprimono il respiro, ad esempio. Freud ci ha insegnato che se non ascoltiamo la voce dell’inconscio questa voce si alza, esattamente come quando parliamo a qualcuno che non ci ascolta e ci viene spontaneo metterci ad urlare. Ecco, i sintomi, sono i segnali, le urla, le richieste di attenzione che il nostro mondo psichico ci manda: non mettiamoli a tacere con le 'goccine' consigliate dall'amica, perché sono comunicazioni importanti che vale la pena ascoltare”.
La giovane paziente aggredita perché considerata un'untrice
La psicologa sottolinea anche le sue perplessità sul modello comunicativo italiano. “In Nuova Zelanda il motto è stato ‘state calmi e siate gentili’, da noi ‘state a casa’, quindi implicitamente ‘fate i bravi e obbedite’. E' un linguaggio infantilizzante che ha autorizzato le persone a comportamenti da piccoli sceriffi. Così il paradosso che si è venuto a creare è che alcune sane distanze sociali vengono imprevedibilmente accorciate: sei in coda alla cassa del supermercato, non ti accorgi di esserti avvicinato ad una persona, e lei si sente autorizzata a urlarti contro".
Porta l'esempio di una sua "giovane paziente che è stata insultata da una signora anziana mentre parlava con un'amica in coda per entrare in farmacia. La signora le ha detto che era colpa loro e di tutti i giovani come lei che andavano in discoteca e distribuivano il virus agli anziani che morivano. Tanti pazienti come lei mi raccontano episodi simili e ricorrenti. Ci si sente guardati a vista, come dei potenziali criminali perché giudicati possibili untori. Le persone più fragili perdono il ‘controllo’ del mondo ed ecco che arrivano le ossessioni verso la casa e verso il corpo come modo, disfunzionale, per illuderci che riprendiamo il controllo della nostra vita. sono tanti i giovani adulti che facevano tantissima ginnastica e ora troviamo in studio. Quando questi aspetti entrano nel tessuto psichico e sociale è difficile sradicarli”.