Uno dei mandanti dell'omicidio di Rosario Livatino, Giuseppe Montanti di 64 anni - secondo quanto apprende l'AGI - ha usufruito di un permesso premio della durata di nove ore. Triste scherzo del destino ha voluto che il detenuto ne usufruisse proprio nella settimana delle commemorazioni per l'omicidio del giudice Livatino, avvenuto il 21 settembre del 1990.
Il permesso premio, deciso dalla magistratura di Sorveglianza di Padova, è il primo dall'ergastolo (comminato nel 1999 dalla Corte d'assise di Caltanissetta) e dalla successiva latitanza. Montanti è stato per vent'anni in regime di carcere duro e ha ottenuto il permesso anche grazie alla sentenza della Consulta di qualche mese fa sui reati ostativi ed i permessi.
Il 64enne ha usufruito del permesso nei giorni scorsi e, durante le nove ore "premiali", ha ricevuto telefonate e incontrato familiari e amici, per poi far rientro in carcere. L'uomo venne arrestato dopo la condanna del 1999 e a seguito di un periodo di latitanza ad Acapulco, in Messico.
I precedenti negati
Montanti avrebbe potuto usufruire di un permesso premio già nel giugno del 2019, ma il 2 settembre successivo "il Tribunale di Sorveglianza di Venezia ha accolto il reclamo presentato dal P.M. avverso il decreto di permesso premio del Magistrato di Sorveglianza di Padova del 04.06.2019, con conseguente rigetto dell'istanza di permesso premio presentata da Montanti Giuseppe" si legge nella relazione allegata al provvedimento di concessione del permesso premio che a Montanti era già stato negato nel 2018 quando "il Tribunale di Sorveglianza di Venezia ha rigettato il reclamo avverso il provvedimento del Magistrato di Sorveglianza di Padova di rigetto dell'istanza di permesso premio".
Montanti non ha mai ammesso "il concorso nell'omicidio del giudice Livatino". Nel decreto del magistrato si fa riferimento alla sentenza della Corte di Cassazione del 2020 in cui si afferma "la non necessità della confessione del reato per ottenere il permesso-premio".
L'ergastolano che incontra le scuole
Montanti "da febbraio 2019 partecipa a incontri con gli studenti in istituto, nell'ambito del progetto "Scuola-carcere", apprende l'AGI dalla relazione allegata al provvedimento di concessione del permesso premio (gia' usufruito) da parte della magistratura di Sorveglianza di Padova. "Nell'anno scolastico 2010-2011" Giuseppe Montanti "ha frequentato solo il primo anno di Ragioneria alla quale ha rinunciato. Nel 2013 - si legge ancora nella relazione allegata al provvedimento che 'giustifica' la decisione - ha ripetuto la scuola media inferiore e fino a giugno 2015 ha partecipato a tre incontri settimanali. Da qualche anno partecipa con passione al laboratorio di cucito. Per questo impegno ha ricevuto un encomio a marzo 2015".
"Sono fuori dalla mafia". Ma il Dap non gli crede
"Le circostanze soggettive e oggettive del caso escludono una qualunque attualità di collegamenti con la criminalità organizzata nonché il ripristino di tali collegamenti, in assenza di qualunque pericolo che possa ripristinarli, così da potersi affermare il vincolo imposto dal sodalizio criminale o la persistenza di detti legami e rapporti" scrive Montanti nella richiesta di poter usufruire del permesso premio alla magistratura di Sorveglianza di Padova. In sostanza l'ergastolano assicura di essere fuori dalla mafia e di non avere più contatti, anche se a smentirlo ci sono alcune note, fra le quali della del 29 gennaio del 2020 della Prefettura di Padova, in cui si conclude "l'impossibilità di escludere la persistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata ed eversiva".
Stesse considerazioni fatte anche dal Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria (Dap) che con nota del 30 aprile 2019 evidenza che "non ha mai collaborato e conclude che non si può escludere eventuale ulteriore collegamento con ambienti devianti esterni".
Il magistrato di Sorveglianza di Padova ha anche chiesto parere alla Questura di Agrigento che ha messo nero su bianco (il 27 gennaio 2020) come l'organizzazione di Montanti, la Stidda, sia "sul piano organizzativo non del tutto disarticolata e tutt'ora operante nel territorio di Agrigento".
Il delitto Livatino
Erano passate da poco le 8.30 quella mattina del 21 settembre 1990. Rosario Livatino, che il 3 ottobre avrebbe compiuto 38 anni, a bordo della sua Ford Fiesta di colore rosso, da Canicattì dove abitava, si stava recando al tribunale di Agrigento, quando fu avvicinato, braccato e ucciso senza pietà da un commando mafioso. In questi giorni il magistrato, di cui è in corso il processo di beatificazione, avviato nel settembre 2011, viene ricordato con una serie di iniziative. Ma sul trentesimo anniversario piomba la notizia - confermata all'AGI - della concessione di un permesso premio a Giuseppe Montanti, 64 anni, di Canicattì, condannato all'ergastolo.
In base alla sentenza che ha condannato al carcere a vita sicari e mandanti, Livatino fu ucciso perché "perseguiva le cosche mafiose impedendone l'attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l'espansione della mafia". Giovanni Paolo II, pensava anche al magistrato, che una volta definì "martire della giustizia e indirettamente della fede", quando da Agrigento il 9 maggio del 1993, lancio' il suo anatema contro i mafiosi.
Quel mattino di 30 anni anni fa, il giudice stava percorrendo i duecento metri del viadotto San Benedetto, a tre chilometri dalla città dei templi, quando una Fiat Uno e una motocicletta di grossa cilindrata lo affiancarono costringendolo a fermarsi sulla barriera di protezione della strada statale. I sicari spararono numerosi colpi di pistola. Rosario Livatino tentò una disperata fuga, ma fu bloccato. Sceso dal mezzo, cercò scampo nella scarpata sottostante, ma fu raggiunto e ucciso. Sul posto arrivarono i colleghi del giudice assassinato: da Palermo l'allora procuratore aggiunto Giovanni Falcone e da Marsala Paolo Borsellino.
Rimane ancora oscuro il "vero" contesto in cui maturò la decisione di eliminare un giudice non influenzabile. Prima di lui, il 25 settembre 1988, stessa sorte era toccata al presidente della Prima Sezione della Corte d'Assise d'Appello di Palermo Antonino Saetta e al figlio Stefano trucidati in un agguato sempre sulla statale Agrigento-Caltanissetta, sul viadotto Giulfo mentre, senza scorta e con la loro auto, facevano rientro a Palermo.
Nella sua attività Livatino si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la 'Tangentopoli siciliana' e aveva colpito duramente la mafia di Porto Empedocle e di Palma di Montechiaro, anche attraverso la confisca dei beni.
La storia di Livatino è stata raccontata da Nando dalla Chiesa nel libro "Il giudice ragazzino", titolo che riprende la definizione - oggetto di forti polemiche - di Francesco Cossiga. "Livatino e la sua storia - scrive Dalla Chiesa - sono uno specchio pubblico per un'intera società e la sua morte, più che essere un documento d'accusa contro la mafia, finisce per essere un silenzioso, terribile documento d'accusa contro il complessivo regime della corruzione".
La reazione
"La concessione del permesso premio è un suo diritto e, quindi, non c'è nulla da obiettare. In ogni caso, senza voler polemizzare, bisogna avviare una riflessione perché c'è un problema pure di coscienza" ha detto il giornalista Enzo Gallo, componente dell'associazione 'Amici di Livatino' e cugino del giudice ucciso. "Montanti" aggiunge Gallo "dopo 20 anni passati in carcere con un comportamento pare esemplare può godere di questo premio. Lo prevede la legge e quindi è un suo diritto. Per dirla come la vittima, cioè il dottor Rosario Livatino: 'dura lex, sed lex'. Però è forse un segnale che di questa concessione di beneficio si stia avendo notizia solo oggi, a meno di una settimana dal trentennale del vile e barbaro omicidio mafioso".