AGI - Ora che sappiamo che Papa Francesco si appresta a dare al mondo la sua terza enciclica, e ne conosciamo anche il titolo, viene più facile inquadrare le sue parole in un ragionamento più vasto, in una cornice più ampia. “Fratelli tutti”, dirà Bergoglio da Assisi, e nonostante il luogo si può star certi che non si rivolgerà solo a Fratello Sole e Sorella Luna.
Il Creato e le sue manifestazioni, anche le più silenziosamente tremende, saranno sì al centro delle sue riflessioni. Lo sono fin dall’inizio di questo pontificato, ed è risaputo che una delle due encicliche precedenti a questa proprio al Creato è dedicata, per non dire dell’esortazione apostolica sull’Amazzonia. Ma stando a quello che emerge in questi giorni, in cui procede senz’altro il lavoro di rilettura ed eventuale limatura del testo finale, non si tratta solo di questo.
Al centro del Creato c’è pur sempre l’Uomo, con le sue prerogative e le sue responsabilità. Non è stato lui a scatenare il coronavirus, ma è lui che ha posto e condizioni perché esso si manifestasse in modo così letale. C’è da cambiare sistema, pertanto. Uomo ascolta, i tempi ti interpellano.
La critica al sacro egoismo
Quanto detto dal Papa nelle ultime ore, insomma, prelude ed anticipa almeno in parte quel che si leggerà, elaborato in modo più articolato, nel documento che uscirà il 3 ottobre. E se nei giorni scorsi Bergoglio non aveva risparmiato le critiche alla tecnocrazia ed all’economia basata sulla finanza e su un malsano desiderio di dominio, adesso si sofferma sulla politica: altra scienza non propriamente esatta da rifondare sulla base di canoni antichi quanto dimenticati.
Una politica per l’uomo e dell’uomo, che rifugga anch’essa dall’idea di dominio come dovrebbe fare la finanza. Chissà se lo si vedrà mai, questo miracolo, ma per intanto si leggano le parole del Papa e si rifletta. Non farà certo male, perché puntare alle stelle è il primo passo per non restare nella polvere.
Parte, Papa Francesco, da un primo assunto: il corovavirus, la pandemia che adesso rischia di sfondare il muro del milione di vittime, ha messo a nudo una verità semplice e negletta. Senza la ricerca del bene comune la fine dell’individuo è garantita.
Insomma, il sacro egoismo è solo egoismo, e niente ha di sacro. L’individuo muore, la persona che vive in comunità sopravvive. Primo assunto, quindi, e prima conclusione pratica: l’accaparramento del vaccino ad esclusione dell’altro non è solo moralmente condannabile, è garanzia di fallimento. Lo dice la cronaca di queste ore, che sembra fatta apposta per smentire i facili entusiasmi e le conseguenti corse a quella che sarà una nuova forma di dominio.
Al contrario, la risposta che rende tutti più forti è la condivisione dei beni di primissima necessità. Quelli che poi servono davvero a tutti, mica solo ai deboli e ai fragili. Il covid lo ha dimostrato, Bergoglio lo ricorda con delicata chiarezza.
Gli ultimi a morire
Amore per il prossimo, quindi, senza barriere, “frontiere o distinzioni culturali e politiche”. Ne scaturiscano “strutture sociali che ci incoraggiano a condividere piuttosto che a competere, che ci permettono di includere i più vulnerabili e non di scartarli, e che ci aiutano ad esprimere il meglio della nostra natura umana e non il peggio”. Il peggio: l’egoismo esteso alle nazioni intere ed ai popoli, pronti ad azzannarsi per essere i primi a vivere, rischiando solo di essere gli ultimi a morire.
Lo diceva invece l’Aquinate: il bene comune è dovere dei singoli come dei tanti. A questo punto inizia il secondo momento del discorso sul metodo elaborato da Bergoglio. Inevitabile, se si vuole portarne la logica alle conseguenze naturali. Se la costruzione del bene comune è dello zoon politikon, allora è chiaro che ci voglia la politica.
Materia, quest’ultima, che in passato la Chiesa ha fatto capire di considerare appiccicosetta, non del tutto pulita, in fondo più d’ostacolo che non d’aiuto alla salvezza dell’anima.
Nessuna scomunica, per carità, solo che alle esaltazioni ufficiali (il Grande Giubileo del Duemila ebbe la sua giornata dedicata ai politici, ci mancherebbe) si accompagnava il sottile vezzo di accompagnare quella parola – “politica”, appunto – a concetti non del tutto lusinghieri. Il chiacchiericcio della politica, ad esempio, le divisioni della politica, l’incertezza della politica. Tutto a maggior gloria dell’impegno sociale del cristiano: rifugiati lì, non è tempo per mettere la testa fuori.
Nel segno di Paolo VI
Bergoglio ha intrapreso semmai il percorso contrario: la politica ha sì i suoi difetti, ma resta centrale. Senza politica, la buona politica, non si tira avanti. Nelle sue stesse parole: “Purtroppo, la politica spesso non gode di buona fama, e sappiamo il perché. Ma non bisogna rassegnarsi a questa visione negativa, bensì reagire dimostrando con i fatti che è possibile, anzi, doverosa una buona politica, quella che mette al centro la persona umana e il bene comune”.
Sostenere che si tratti di una rivoluzione copernicana è senz’altro esagerato: Paolo VI definiva la politica la forma più alta di carità. Il fatto è che poi questa definizione è caduta in disuso, come nel mondo dei laici sono caduti in disuso concetti come quello di responsabilità sociale dell’impresa.
Non sarà rivoluzione, quindi, ma cambiamento radicale rispetto al recente passato di sicuro lo è. Non si deve dimenticare quanto ha già detto sul finire dell’estate, e cioè che persino il volontariato, che pure è il fiore all’occhiello della Chiesa italiana, da solo non basta. Bisogna andare al cuore dei problemi sociali, se li si vuole risolvere. Altrimenti è un palliativo.
Metti la testa fuori, cristiano, non ti accontentare del nobile impegno nel privato. I tempi stanno per cambiare.