AGI - "Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perche' sento dentro che Dio mi chiede di indossarlo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima". Silvia Romano, la volontaria rapita in Kenya nel novembre del 2018 e rimasta prigioniera dei terroristi in Somalia per un anno e mezzo, racconta per la prima volta la sua conversione in un'intervista con Davide Piccardo, esponente della comunità islamica e direttore del sito 'La luce'.
Uno dei temi affrontati è proprio quello del concetto di libertà nella religione musulmana. "Il concetto di libertà è soggettivo e per questo è relativo. Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha - afferma - nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un'imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti. C'è qualcosa di molto sbagliato se l'unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo".
La giovane, oggetto di violenti attacchi sui social per la sua scelta di abbracciare l'Islam, racconta che, quando vedeva "le donne col velo in via Padova (la strada multi-etnica vicino a cui vive, ndr), avevo quel tipico pregiudizio che esiste nella nostra società, pensavo: poverine! Per me quelle donne erano oppresse, il velo rappresentava l'oppressione della donna da parte dell'uomo (...). Io non avevo paura del diverso e nemmeno ostilità, ma quel pregiudizio negativo c'era. Sicuramente, pur pensando certe cose non le avrei mai dette per evitare di ferire gli altri, ma si', il pregiudizio lo avevo; per quello posso capire chi oggi, non conoscendo l'Islam, pensa queste cose. All'epoca ero una persona ignorante, non conoscevo l'Islam e giudicavo senza mai essermi impegnata a conoscere".
Nell'intervista al sito 'La luce', Silvia Romano, la volontaria milanese liberata il 9 maggio dopo un lungo sequestro, spiega di avere pensato che "forse" Dio l'aveva "punita" quando arrivò nella prigione a lei destinata dai carcerieri in Somalia. "Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso che sia stata presa io e non un'altra ragazza? E' un caso o qualcuno lo ha deciso? - ricorda - Queste prime domande credo mi abbiano gia' avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da li' un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali. Mentre camminavo, piu' mi chiedevo se fosse il caso o il mio destino, piu' soffrivo perche' non avevo la risposta, ma avevo il bisogno di trovarla".
La giovane chiarisce che quelle domande non la facevano sentire meglio, anzi: "Più mi facevo domande e più piangevo e stavo male; mi arrabbiavo perché non trovavo la risposta e andavo in ansia. Non avevo la risposta ma sapevo che c'era e ci dovevo arrivare. Capivo che c'era qualcosa di potente ma non l'avevo ancora individuato, però capivo che si trattava di un disegno, qualcuno lassù lo aveva deciso. Il passaggio successivo è avvenuto dopo quella lunga marcia, quando già ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito. Forse Dio mi stava punendo per i miei peccati, perché non credevo in Lui, perché ero anni luce lontana da Lui".
Silvia rievoca il "primo momento in cui mi sono rivolta a Lui", "a gennaio, quando ero in Somalia in una stanza di una prigione, da pochi giorni. Era notte e stavo dormendo quando sentii per la prima volta nella mia vita un bombardamento, in seguito al rumore di droni. In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a pregare Dio chiedendogli di salvarmi perche' volevo rivedere la mia famiglia; Gli chiedevo un'altra possibilità perche' avevo davvero paura di morire. Quella è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui".