“Ustica? Ma quale mistero. Il relitto ha parlato e la verità è nelle nostre perizie che, in ogni modo, qualcuno ha cercato di smontare e ostacolare”.
Carlo Casarosa, professore ora in pensione di meccanica del volo nel dipartimento di ingegneria aerospaziale dell’Università di Pisa, è l’uomo che ha fatto parlare il DC9 Itavia finito nel mare di Ustica con 81 persone a bordo la sera del 27 giugno 1980.
E in una lunga intervista ad Agi spiega con particolari nuovi i tasselli dell'intera indagine.
All’alba del 28 giugno, alcune chiazze oleose nel Mediterraneo all’altezza di Ustica con cadaveri e rottami che iniziano ad affiorare segnano il ritrovamento e l’inizio di un mistero lungo quarant’anni. Ma il professor Casarosa, che nel 1990 entra nel collegio dei periti che affiancano il giudice Rosario Priore nelle lunghe indagini dell’inchiesta, è sicuro: “Per me non è un mistero. C’è il rammarico che si potesse arrivare molto prima alla ricostruzione oggettiva delle cause dell’incidente e dello scenario in cui avvenne, ma mancò la collaborazione da parte di chi doveva e poteva”. Oltre cinquemila le pagine di perizie incrociate contenute in cinque volumi.
Nessun missile, nessuna bomba
“Né missile, né bomba a bordo, fu una ‘quasi collisione’”, ribadisce oggi Casarosa che, nel libro “Ustica. Storia di un’indagine”, pubblicato nel 2006 racconta passo dopo passo gli anni febbrili che lo impegnarono nella ricerca della verità sulle cause che portarono alla caduta del DC9.
Fu il recupero del relitto, oltre 4000 pezzi, e la sua paziente ricostruzione in un hangar a Pratica di Mare (ora il relitto è al Museo della Memoria di Bologna), come un infinito puzzle in 3D durato 4 anni, a mettere sotto gli occhi di Casarosa una ipotesi che si discostava da quelle classiche di missile o bomba a bordo osteggiata "da parte di alcuni colleghi, giornalisti e persino di ministri della Repubblica ritenendola un evento miracoloso mai accaduto nella storia dell’aviazione”.
Dieci anni accanto al giudice Priore, e ora in contatto con i giudici Erminio Amelio e Maria Monteleone nell’inchiesta in corso, un altro libro in corso di stampa, l’ingegner Casarosa è convinto della sua verità che emerge dalle oltre cinquemila pagine in cinque volumi di perizie incrociate, radaristiche e chimiche, frutto di studio e analisi di ogni singolo pezzo e da anni di puntigliosa attenzione a dettagli, tranelli e a falliti tentativi di depistaggio : “Missile, bomba, danno strutturale furono le prime ipotesi.
Quando il professor Santini mi chiese di entrare nella squadra di periti del giudice Priore, mi ripromisi di affrontare il mio incarico con la massima oggettività e senza innamorarmi di ipotesi né lasciarmi condizionare”.
Una dichiarazione d’intenti mantenuta per molti anni anche di fronte a controperizie e dati che propendevano per la tesi del missile e della bomba, e finanche dell’abbattimento.
“Ma non c’erano tracce di esplosione né interna né esterna (missile) – ripete Casarosa -. E tutte le presunte prove che venivano addotte a sostegno, alla fine venivano smontate da analisi o da dati oggettivi.
Un esempio: di fronte ai vetri intatti di cinque file di oblò recuperati dal relitto, come può reggere l’idea di una esplosione interna o esterna ipotizzata nelle immediate vicinanze?”.
La scoperta che porta Casarosa a formulare l’ipotesi definitiva sulle cause che fecero precipitare il DC9 arriva dopo molti anni di indagini e dopo il recupero e il montaggio, sul relitto ricostruito, dell’estremità dell’ala sinistra del DC9.
“Nel fare le foto e compilare le schede – racconta – ci rendemmo conto che un frammento di ala presentava i correnti superiori e inferiori vistosamente deflessi verso il basso, segno che esso si era distaccato a causa di una sollecitazione di flessione verso il basso.
Questa deflessione, che all’inizio avevamo attributo all’impatto con la superficie del mare, si era invece verificata in volo, al momento del distacco della parte terminale dell’ala”. Un fenomeno, spiega l’ingegnere, “assolutamente contrario a ogni aspettativa”.
Così, sulla base dei dati aeromeccanici del DC9, inseriti in un simulatore di volo, il professor Casarosa riesce a ricostruire l’incidente di Ustica: “Lo vedemmo generarsi sotto i nostri occhi”. Secondo l’esperto, l’evento primario che causò l’incidente fu la rottura dell’estremità dell’ala sinistra che innescò poi una serie fenomeni che portarono alla rottura di elementi critici del velivolo.
Ma perché avvenne quella rottura? Il professore inizia a cercare un evento esterno: “La risposta poteva venire solo dall’esame dello scenario esterno, cioè dall’esame dei risultati che le perizie radaristiche andavano via via fornendo”.
Un "sorpasso" fatale
Quella sera nei cieli sopra Ustica il DC9 non era solo come dimostrato dalle perizie radaristiche. Secondo il professore, la flessione dell’ala fu determinata dall’incontro del DC9 con una scia vorticosa lasciata da un altro aereo che lo ‘sorpassò’.
“Il fenomeno in linguaggio tecnico si chiama Wake Vortex Turbulence. E’ un fenomeno ben noto in Aeronautica perché all’origine di molte sciagure aeree. Nel periodo 1964-1971 ha causato 120 incidenti, con 333 vittime nel periodo 1968-2017.
Durante il volo, si generano due vortici, in corrispondenza delle ali degli aerei. Queste scie vorticose si mantengono anche quando il velivolo è passato e si attenuano dopo alcuni minuti.
All’interno dei vortici, la velocità iniziale di rotazione dell’aria supera il centinaio di km/h”. I vortici sono pericolosi e presenti nelle aree aeroportuali ed è per questo motivo che le autorità aeronautiche impongono precisi intervalli di tempo prima di autorizzare decolli e atterraggi.
“Essendo a conoscenza di questi fenomeni – prosegue Casarosa – ritenni che la possibile presenza di velivoli nel cielo, le scie vorticose, la possibile interferenza di esse con l’ala del DC9 fossero in relazione”.
Nei documenti il fenomeno è indicato come quasi collisione volendo evidenziare che i velivoli coinvolti non erano così vicini da rischiare la collisione né così lontani da determinare l’attenuazione del fenomeno.
Ed ecco l’ipotesi. “Il DC9 viene ‘sorpassato’ da un aereo che vira a est rispetto alla traiettoria verso sud. L’ala sinistra del DC9 incrocia la sua scia. E da lì il distacco e la caduta”.
Mettendo insieme i dati ufficiali, il professore ricostruisce così cosa avvenne nei cieli di Ustica la sera del 27 giugno 1980: “Credo che il DC9 sia rimasto casualmente coinvolto in un’azione di riconoscimento e intercettazione.
Il volo Itavia era partito da Bologna e durante il volo viene seguito da un altro aereo, forse il Mig libico. Questo viene intercettato da due aerei presumibilmente americani che si vedono nei radar volare per un certo tempo paralleli al DC9 spostati di 15 miglia alla sua destra.
Il Mig, intercettato, per sfuggire alla manovra, sorpassa il DC9 e vira verso la Calabria, lasciando la scia, particolarmente violenta.
Gli intercettori avrebbero poi raggiunto il bersaglio, danneggiandolo nel tratto di mare prima delle coste calabre e provocandone la successiva caduta sulla Sila”.
Casarosa aggiunge: “Nel manuale di volo del Mig 23 si evidenziava che, nei voli in formazione, si doveva evitare di entrare nella sua scia perché essa è particolarmente intensa”.
Questa la ricostruzione del professore che si autodefinisce: “uno degli ultimi personaggi ancora vivi di questa lunga inchiesta che ancora oggi, dopo 40 anni, per molti rimane un mistero aperto”.