AGI - Primo giugno 1977. Genova. Sono le 22.40, Vittorio Bruno lascia la sede del suo giornale - il Secolo XIX di cui è vicedirettore - e si dirige verso l'auto per rientrare a casa. Si accinge a salire quando un ragazzo giovanissimo lo avvicina e gli spara alle gambe e alle braccia. Bruno è raggiunto da sette colpi: a fatica si trascina in auto e con il clacson cerca di attirare l'attenzione. I proiettili non ledono organi vitali.
Due giugno 1977. Milano. Indro Montanelli esce dall'Hotel Manin, dove alloggia, per andare in Piazza Cavour, alla redazione del 'Giornale nuovo', quotidiano che ha fondato nel 1974 dopo l'uscita dal Corriere della Sera. Il giornalista, sessantotto anni, attraversa via Manin e cammina lungo la cancellata dei Giardini Pubblici. Non si accorge di essere inseguito da due giovani. "È lei Montanelli?", gli chiedono. Poi uno dei due estrae una pistola con silenziatore e spara otto colpi. Quattro vanno a segno: Montanelli non cade subito, si aggrappa all'inferriata; si accascia a terra. La vita di Indro Montanelli e quella di Vittorio Bruno sono legate da uno iato di poche ore, nel giugno 1977, quando entrambi - in due diversi attentati - sono stati gambizzati per mano del terrorismo.
Erano gli Anni di piombo e da allora in poi, i due avrebbero condiviso amicizia e stima professionale. Abbiamo chiesto all'ex vicedirettore del Secolo XIX e poi direttore del Tempo - ora ottantenne - che cosa prova a vedere la statua dedicata al fondatore del Giornale ai giardini di Milano, imbrattata e rovinata.
L'intervista
Direttore, sulla statua dedicata a Montanelli è stato scritto 'razzista stupratore', ma lo era davvero?
"Non ho mai sentito o letto da lui una sua parola di questo genere. I libri di storia che ha scritto con Roberto Gervaso dimostrano che di razzismo nel suo sangue non c'era nemmeno una goccia. Dopo l'episodio dell'anno scorso, questo nuovo imbrattamento, è l'ultima cosa da fare nei confronti di personaggi come il suo. A suo tempo, Indro Montanelli raccontò quello che successe in Africa quando aveva appena 20 anni, lo confessò durante un'intervista a Gianni Bisiach e chiese scusa. Era davvero il giornalista più libero e indipendente che conoscessi. Fece un grosso errore, giovanile, e lo riconobbe: questo dibattito ora mi sembra aria fritta". -
C'è un legame tra il razzismo per cui oggi si protesta negli Stati Uniti e gli episodi raccontati da Montanelli?
"Oggi il clima che si vive negli Usa sul tema del razzismo è giustificato. Chi protesta denuncia quello che si vive in quel Paese fa bene a farlo, con la necessaria evidenza. Ma la figura di un grande giornalista, uno che lasciò il Corriere per fondare un'altra testata, perché voleva scrivere solo cio' che sentiva, non c'entra proprio nulla". - Uno dei motivi per cui si vorrebbe rimuovere la statua e' il fatto che Milano, la citta' che la ospita, e' stata Medaglia d'oro della Resistenza "Montanelli ha vissuto prima e durante la Resistenza da persona indipendente, ma da questo ad attribuirgli un passato da razzista molto ce ne corre". -
Le vostre vite sono legate da un episodio tragico: essere stati gambizzati a distanza di poche ore, come andò?
"Mi spararono il primo giugno 1977 e la sera stessa, mentre ero in ospedale, Montanelli mi telefono' infuriato come solo lui sapeva essere. Mi disse che la sua rabbia era dovuta al fatto che "le Br avevano osato colpire i giornalisti". Lo ringraziai molto di questo affetto, perche' in fondo non lo conoscevo cosi' bene ancora". Allora ero vicedirettore vicario del Secolo XIX, e proprio cronisti di quel giornale sarebbero stati i primi a ricevere per posta le lettere relative al rapimento di Aldo Moro. E' ormai storia che le Brigate Rosse avevano deciso di iniziare una campagna contro i giornalisti perche' volevano richiamare l'attenzione della grande stampa e avevano bisogno di una grancassa. La situazione era molto diversa da quella di oggi, allora non si conosceva ancora la strategia terroristica, e la stessa polizia non era preparata".