Foto come quelle che sono state scattate sui Navigli a Milano, con un grande numero di persone, alcune che bevevano birra in strada, “non sono accettabili e senza dubbio non sono l’ideale per le misure di isolamento che dovremmo mantenere”, tuttavia, se “può essere vero che alcuni hanno comportamenti non rispettosi della legge sul distanziamento, l’atteggiamento generale è molto cambiato rispetto a febbraio: in maggioranza si usano i dispositivi e non ci si dà la mano”.
È una posizione di pacata osservazione dei fatti quella del professor Carlo La Vecchia, epidemiologo dell’Università Statale di Milano, che con l’AGI ha fatto un punto sull’andamento dell’epidemia sottolineando un concetto: “E’ sotto controllo”.
Professore, come si sta dimostrando l’evoluzione del contagio?
“Il primo messaggio da dare è che non bisogna guardare ai dati giorno per giorno, ma almeno a gruppi di settimane. Da 4 settimane abbiamo un -25% di morti, se consideriamo che quelli registrati dalla protezione civile sono solo una parte di quelli effettivamente deceduti per Covid. Al conteggio giornaliero infatti ne sfuggono alcuni, che vengono poi recuperati nella mortalità generale. Ipotizzo che se a fine aprile i morti ufficiali erano circa 12.400, è probabile che quelli reali fossero 27mila. Questo dimostra che la diminuzione dei casi è molto più alta e veloce di quella diffusa sui bollettini ufficiali. Il famoso R0 - che sarebbe meglio definire RT0 (dove T è tempo) - è più basso di come appare: l’Istituto Superiore di Sanità lo stima a R0,53, ma potrebbe essere addirittura R0,4. Insomma l’epidemia è sotto controllo. Calano anche i ricoveri in terapia intensiva e il servizio sanitario nazionale oggi è in grado di reggere l’urto, in un modo completamente diverso e migliore rispetto a metà marzo”
Perché sembra che da noi la curva cali più lentamente che altrove?
“Il calo è più lento rispetto alla Cina, perché nell’Hubei, dopo il 10 febbraio, i positivi venivano isolati in infermeria, mentre noi abbiamo adottato l’isolamento domiciliare. Questo ha significato che molti malati hanno continuato a contagiare all’interno della famiglia”
E’ stato usato da un suo collega il termine ‘bomba’ per definire il pericolo che a Milano arrivi una seconda ondata, Lei che cosa ne pensa?
“Un’eventuale seconda ondata non si vedrebbe presto. Il rischio grande che Milano ha corso è stato circa un mese fa, quando l’onda drammatica che aveva toccato Bergamo e Brescia avrebbe potuto arrivare anche nel capoluogo regionale. In realtà si è riusciti a contenerla e a rallentarla. Insomma abbiamo retto, anche se si poteva fare meglio. Una riesplosione adesso va evitata, ma la situazione di oggi negli ospedali è molto migliore di quella di un mese fa”
Ci sono delle osservazioni cliniche che vedono un coronavirus di per sé meno aggressivo rispetto ai primi mesi della pandemia?
“Qualsiasi medico osservi i pazienti che arrivano in ospedale oggi può dire che si tratta di casi enormemente meno gravi di quelli di marzo. Non c’è dubbio. La prima ipotesi è che con il decongestionamento dei reparti ora è possibile essere accolti anche quando non si è ancora in condizioni troppo compromesse. Ma molti clinici, non solo il professor Remuzzi dell’Istituto Mario Negli, pensano che questo virus sia diventato meno aggressivo. E non è irragionevole: quando un microrganismo nuovo entra all’interno di una popolazione, infetta prima i soggetti più suscettibili, come è stato nel nostro caso per gli anziani. La seconda ipotesi dunque è che abbia già contagiato quanti erano davvero più deboli. Infine possiamo osservare come si sono comportati altri suoi simili nella storia: l’OC43 che nel 1889 causò 1 milioni di morti si attenuò autonomamente e oggi causa il raffreddore”.
Insomma Lei crede possibile che il coronavirus possa sparire da solo?
“Qui andrà a finire in due modi: se ci va bene scompare, se non ci va bene dobbiamo conviverci. Prima o poi deve estinguersi: il tema non è se ma quando. Certo è molto diverso un orizzonte temporale di due mesi o di due anni.
In Italia ci sono in media, in condizioni normali, circa 1870 decessi al giorno: se arriviamo a qualche decina di decessi quotidiani per Covid, anche questa diventerà una delle tante malattie con cui fare i conti. Dell’Aids, nei primi anni ’80, si pensava che sarebbe stata devastante, e poi, solo alla fine del decennio, si è capito che si tratta di una malattia grave e costosa, ma gestibile. Questa epidemia, inoltre, è stata affrontata con estrema sensibilità, rigore e attenzione. Insomma, il quadro più favorevole dice che il Covid diventerà una ‘nicchia’, che si può monitorare e curare. Oppure, ed è l’opzione sfavorevole, che in futuro indefinito passi come tutte le epidemie: prima o poi se ne vanno.
Un ruolo importante ce lo avrà la gestione. Secondo Lei bisogna fare più tamponi e test sierologici, magari a coloro che hanno avuto casi in famiglia?
“Fare più tamponi in generale è utile perché si va a scoprire quella fetta largamente indefinita di malati ancora contagiosi. Ma è particolarmente utile farlo ai lavoratori della sanità, alle forze dell’ordine e ai conducenti di mezzi pubblici, che sono a contatto con la gente. I casi che vengono registrati sono quelli che si recano in ospedale, ma sicuramente ci sono stati molti malati a casa che nessuno ha registrato. Ad oggi, ai cosiddetti ‘contatti’, ovvero coloro che hanno avuto persone vicine ammalate, i test vengono fatti, chiamando il 112 anche con sintomi lievi. Se si viene messi in quarantena la condizione per poterla terminare sono i due tamponi. Il tutto è utile a contenere l’epidemia. Le infezioni ospedaliere, infine, si sono ridotte: a Milano tra il 15-20 marzo e la prima settima di aprile la situazione era drammatica e si doveva andare a lavorare tutti, ora il personale è monitorato”.