Più si susseguono le omelie quotidiane da Santa Marta, più le argomentazioni di Papa Francesco assumono un carattere sistemico. Dice l'osservatore annoiato: sono più di sette anni che è Pontefice, ha avuto modo di spiegarsi in mille occasioni e già si sa tutto. Innegabile. Ma bisogna anche riconoscere che la pandemia di coronavirus ha reso unico il contesto, e soprattutto ha dato - come dire - particolare unitarietà ai suoi ragionamenti che, ravvicinati, hanno aumentato il loro potenziale d'impatto.
Non stupisce, a questo punto, il nuovo intervento papale a richiamo dell'Europa. Poche parole, questa volta, e nemmeno i toni sostanzialmente apocalittici di pochi giorni fa. Eccole: "In questo tempo nel quale è necessaria tanta unità tra noi, tra le nazioni, preghiamo per l'Europa: perché l'Europa riesca ad avere questa unità, questa unità fraterna che hanno sognato i padri fondatori dell'Unione Europea". C'è chi sostiene che, essendo egli argentino, Francesco o non abbia a cuore l'Europa o ne abbia una concezione molto peculiare, se non distorta.
Il primo punto è facilmente contendibile: basta vedere le summenzionate tre righe. Il secondo attiene alle valutazioni dei singoli, pertanto è opinabile. Per non sbagliare noi andiamo ai precedenti, che dai tempi almeno dei Burgundi in Europa sono comunque fonte di diritto.
Il principale di essi risale al 2016, anno in cui all'argentino di origini migratorie questo Vecchio Continente assegnò il principale riconoscimento a disposizione. Il Premio Carlo Magno, per intenderci, lo hanno avuto tra gli altri De Gasperi, Adenauer, Kohl e Mitterrand. Vai a negare che non siano stati tutti europeisti a 18 carati. Spazziamo via l'ultimo dubbio: nel 2004 andò anche a Karol Wojtyla.
"Come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo", disse ai notabili europei Jorge Bergoglio, che se fosse nato otto anni prima sarebbe stato cittadino italiano a tutti gli effetti. "Sogno un'Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita", continuò.
Aggiunse poi, guardando quegli uomini e quelle donne che alla Grecia imponevano l'austerity, ma i migranti glieli lasciavano tutti a Lesbo: "Sogno un'Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Un'Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un'Europa, in cui essere migrante non è delitto".
Sì, è vero, nulla di nuovo sotto il sole: quello che ha detto oggi non è una novità. Ma è proprio questa la novità, perché vuol dire che il coronavirus ha messo a nudo gli errori e le colpevoli pigrizie accumulatesi negli anni, e messo in risalto la necessità di una sterzata quasi brutale. Nessuna pretesa di egemonia culturale, quella del Pontefice. Semmai l'offerta di un terreno anche culturale di mediazione, di confronto. I valori del cristianesimo come camera di compensazione dei reciproci interessi i quali, altrimenti messi in mezzo ad una piazza del mercato, finiscono per scontrarsi in una babele di egoismi.
Non è un caso che Adenauer e Kohl, per non dire di De Gasperi, fossero di estrazione cattolica e democratica. Certe impronte non servono a classificare il politico come l'entomologo cataloga gli insetti; servono a capire l'essenza profonda dei suoi progetti, le radici dei suoi pensieri e le finalità delle sue azioni.
Settantacinque anni, in una storia millenaria, sono un soffio. Si pensi cos'era l'Europa tre quarti di secolo fa, e si ringrazi chi in un soffio ci ha portato dove siamo. L'alternativa era l'ex Jugoslavia degli anni '90.
Si corre a questo punto un pericolo: quello di voler contrapporre due premi Carlo Magno, e cioè lo stesso Francesco e il suo predecessore Giovanni Paolo II. Giustapposizione fuorviante, perché con il passar del tempo emergono tra i due pontificati più gli elementi di continuità che non quelli di rottura. Uguale, nella sostanza, la critica al relativismo culturale e al mercato vissuto non come momento di cooperazione e scambio, ma di darwinismo sociale. Uguale il desiderio di pace e di collaborazione tra i popoli, e la critica all'Occidente reso cieco dalla propria potenza economica e militare ("i giovani leader" di Wojtyla). Uguale, infine, il richiamo alle radici giudaico-cristiane dell'Europa.
No, verrebbe da dire, il punto è proprio quello. Bergoglio la questione l'ha messa nel cassetto. Di fronte al dubbio, noi la ricordiamo: dopo il 2003 e per alcuni anni (gli ultimi del pontificato di Giovanni Paolo II) la Chiesa fu impegnata nel chiedere, agli estensori di quello che avrebbe dovuto essere il testo di una Costituzione europea, un riconoscimento. Il riconoscimento, per l'appunto, delle radici giudaico-cristiane dell'Europa.
Battaglia persa: nel preambolo finì solo un meno impegnativo e in parte immeritato tributo a Pericle. La Costituzione europea è rimasta lettera morta, ma quel richiamo non accolto è divenuto la bandiera di quanti hanno preso a vedere nell'Europa il nemico, lontano dagli uomini e vicino alle banche.
Un approccio che Bergoglio non fa suo, come non può essere attribuibile a Wojtyla: esponente questi di un'Europa che all'epoca era periferica e separata; figlio quello di un'Europa di ritorno, che ha dato molto di sè agli altri continenti e ora è chiamata a ricordare ai propri padri cosa fossero, e cosa devono essere. Le loro radici, le loro vere radici.
Se poi non si vuole proprio riconoscere esplicitamente i meriti di Paolo Tarso, ebreo di lingua greca e cittadino romano, pazienza. I tempi del cristianesimo sono ancora più lunghi di quelli dell'Europa. Si può aspettare.